non ti muovere

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È da un po’ che voglio scrivere qualche riga sulle trasferte di lavoro, gli spostamenti e i viaggi in genere. Perché? Perché credo sia un’attitudine, quella del viaggiatore, come avere il pollice verde, cavarsela tra i fornelli o, la qualità che invidio di più nel prossimo, avere le cosiddette “mani d’oro”. E con questa goldfingership (neologismi che piacciono molto alla mia insegnante di Business English) intendo i maniaci del bricolage, che con gli scarti di un contenitore in legno per la frutta e due chiodi costruiscono bellissime case per le bambole alle loro figlie. Ma questa è un’altra storia, chissà, forse sarà anche un altro post. Perché qui si parla invece di partenze, meno che di arrivi, cosa in cui tutti siamo più o meno bravi. E, trattandosi di viaggi, la prendo alla lontana.

Molte aziende stanno tagliando brutalmente le trasferte e i viaggi di lavoro, i meeting e gli incontri tra colleghi o con clienti si fanno sempre più con gli strumenti di comunicazione e collaborazione a distanza (videoconferenze, telepresence, eccetera…). Le strategie di cost reduction sono state, da questo punto di vista, una manna dal cielo per G., un amico Project Manager di una multinazionale che negli scorsi 5 anni di servizio ha girato in lungo e in largo l’Italia, in auto e in treno, e l’Europa, in aereo. G. ha dovuto raggiungere un compromesso. Un lavoro di grande visibilità, responsabilità e tante altre cose che finiscono in -tà richiede la disponibilità (eccone una) a spostarsi per una percentuale a due cifre del proprio tempo.

G. è nato e cresciuto in un posto che è già di per sé (modesta) meta turistica di centinaia di migliaia (ho esagerato) di persone. G. non è stato educato dalla sua famiglia a viaggiare, perché proviene da un ambiente in cui il viaggio è considerato un handicap. Che senso ha fare chilometri se hai a disposizione le risorse naturali, no? Intanto non c’è bisogno di viaggiare per le vacanze, per esempio. Sono gli altri che si spostano da te e che danno il senso delle ferie, della festa, che alimentano l’economia del tuo territorio almeno per cinque o sei mesi l’anno. Dalle città vicino, poi, sono i giovani che vengono nel tuo paese, nelle resto dell’anno, a riempire pub e locali, vomitare sui marciapiedi e farsi coinvolgere in risse, tutto questo sul mare nelle serate in inverno, che anche se in bianco e nero e visto in tv, è pur sempre un bel film.

Questo scenario genera due opposte indoli: chi fugge, all’estero e non, e va via, e chi resta lì, perfettamente a proprio agio nei ritmi e nelle abitudini locali intorno alle quali adatta la propria vita. Ma ci sono delle vie di mezzo, dei compromessi, appunto. Come G. Se fai un lavoro normale, e non ti occupi di turismo, non puoi rimanere lì. Così studi, fai l’università – rigorosamente da pendolare – e poi ti trasferisci a Milano e inizi la tua carriera. E già quello ha costituito un grande sforzo. Non solo. G. ha accettato un lavoro in cui la trasferta è, o per lo meno è stata, all’ordine del giorno. Ma G., come mi ha confidato più volte, porta con sè un fardello che è poi l’unica eredità consistente lasciatagli dalla sua famiglia. Ovvero l’ansia da viaggio, il viaggio in tutte le sue fasi: la preparazione, la partenza, lo spostamento, l’arrivo, la permanenza, il ritorno, l’assimilazione dell’assenza da casa in tutto quel periodo. Un misto di malessere, frustrazione e depressione dall’essere costretto a vedere intorno a te cose alle quali non sei abituato.

E qualche presagio c’era stato anche qualche tempo prima. G. aveva sperimentato la carriera di musicista professionista, ai tempi dell’università. Fare le tourneé, in giro per l’Italia su un furgone, e le nottate in albergo dopo i concerti. Sia chiaro: non suonando con i Rolling Stones, ma con una normalissima e sconosciuta orchestrina di intrattenimento per giovani (mestiere comunque redditizio) non c’erano groupies a togliere il sonno. L’albergo, l’ostello o il centro sociale quindi doveva essere affrontato da solo. Beh, arrivare in stanza alle tre del mattino, da soli, doccia e poi nel letto, da soli, ad aspettare di ripartire la mattina dopo, da soli, guardando un po’ di tv locali, da soli. Già tutto questo aveva fatto capire a G. che c’era qualcosa che non andava. Per fortuna si trattava solo di un mestiere temporaneo, giusto per essere indipendente durante gli studi.

Ora le trasferte hanno tutt’altri ritmi. Fase 1: la preparazione psicologica. Arriva su Outlook il calendar della missione, per lo più trasferte di un giorno ma in posti in cui è quasi impossibile partire e rientrare nelle 24 ore. Aereo la mattina presto, quindi notte prima della partenza in bianco, a scrutare il display digitale della sveglia mentre si evolve di minuto in minuto, o quando è fortunato di ora in ora. Fase 2: la partenza. Ecco il trillo elettronico della sveglia, spesso anticipato per non inquinare acusticamente il buio del mattino, con i primi ruggiti della tangenziale in sottofondo. Quindi il solito completo business casual, il solito trolley, il pc aziendale, il palmare, un paio di libri, e via. E quasi sempre sono solo le 5. Fase 3: il viaggio. Se è fortunato, G. si spara 4 o 5 ore di autostrada, o alla volta di Roma sul Frecciarossa, un passo in avanti per la qualità della vita del trasfertista. Se no, l’ansia raddoppia per il volo, l’antico dilemma del pezzo di ferro sospeso a centinaia di metri dal suolo, le turbolenze, l’accento dei piloti e delle hostess Alitalia, la classe sempre più economica, le mille miglia, lo stuzzichino dolceosalato. Fase 4: il lavoro altrove. Che nell’era di Internet, doversi ancora incontrare per parlare fa ridere. Ma non tutti lo capiscono, vogliono vedere la forza del tuo body language. Bah, il corpo di G. non sempre si sa esprimere, quasi mai risponde alle domande. E così, per un paio di ore di meeting, vanno via 2 giorni. Fase 5: cena e rientro in albergo. Il tutto quasi sempre da solo, ovviamente. A far finta di disinteressarsi, a tavola, delle conversazioni di chi sta cenando in compagnia per non dare l’idea di essere invidiosi. Ma invidiosi di chi? Si tratta sempre di ambienti da uomini in viaggio di affari. Fase 6: finalmente si torna a casa. G. si sveglia in ore assurde e lascia l’albergo prestissimo per prendere il primo treno, il primo aereo o per evitare il traffico autostradale e tornare il prima possibile. Senza contare che tutto questo ha un costo. Il tempo-vita perso di G., certo. Ma anche il costo vero per l’azienda, diamine. Ecco: il nomadismo, per G., resta un mistero. Specie quando c’è una calamita sempre in funzione laggiù, tra le mura di casa sua. L’unico dispositivo che gli spenga l’ansia, il disagio di non essere al suo posto, l’instabilità delle cose in movimento. Che può mascherare e rivendere come sensibilità ai problemi dell’ambiente: la sua serenità è a chilometri zero.

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