storie di ordinaria folla

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L’informazione è ormai considerata un diritto gratis dell’uomo metropolitano. Mi riferisco all’evoluzione del genere cui apparteniamo anche noi frequentatori dell’ambiente social e virtuale, ovvero l’insieme di bipedi che brulicano sottoterra nelle ore di punta per raggiungere il posto di lavoro. Non si spiegherebbe la profusione di pusher di attualità distorta che presidiano i numerosi varchi di passaggio all’inferno, voragini segnalate da una emme bianca in campo rosso che ogni elettore vorrebbe sempre più vicino al portone di residenza per diminuire il percorso outdoor e la conseguente esposizione alle polveri sottili, se non per veder aumentare il valore del proprio stabile.

Uomini con pettorina di tutte le nazionalità infondono consapevolezza sociale consegnando a cottimo i propri contenitori cartacei pieni di copia e incolla, comunicati stampa elaborati il minimo sindacale e publiredazionali. Ma la free press è anche un ottimo stimolo di evasione dalle celle del sudoku, passatempo ora sempre più desueto e che prima o poi sarà soppiantato definitivamente da app di vario genere.

Sui convogli a rotaie di più lunga percorrenza, che si distinguono dai mezzi dedicati al tratto urbano dal posizionamento dei sedili, è facile abituarsi alle facce degli habitué, tanto che se li incontri sopra, alla luce del sole, quando c’è, e non sei sufficientemente pronto, cadi nell’errore fatale di rivolgere loro un cenno. Perché da quel momento in poi dovrai salutarli sempre.

Da una parte c’è chi resiste nel partecipare e vincere la sfida, come concorrente individuale, alla conquista quotidiana dello spazio vuoto minimo di sopravvivenza, il necessario a consentire i movimenti base, come voltare le pagine della gazzetta dello sport o gesticolare litigando al telefono con il partner del momento. I più fortunati possono godersi il posto al ritmo dell’hi-fi antisociale, determinante per mettersi al riparo dal volume delle suonerie con cui l’italiano usa comunicare al mondo la propria manifesta appartenenza.

La legge numero uno del pendolare misantropo è puntare il posto tra viaggiatori come te, che hanno qualcosa di carta – ultimamente va bene anche in silicio e touch screen – in mano contenente parole sul quale concentrano il proprio sguardo. Guai a trovarsi in mezzo a gruppi più o meno numerosi di persone che affrontano quel percorso ogni giorno insieme e hanno sviluppato confidenza. Nell’interregno del viaggio sui mezzi pubblici, in quell’ambiente mobile, un limbo tra casa e ufficio privo di responsabilità di alcun genere, se non il possedere la tessera elettronica di sopravvivenza mensile, i rapporti che nascono e si sviluppano sono preoccupantemente deleteri. Per il prossimo, intendo.

E oggi sono a pagina 15 di Libertà di Franzen, finalmente è arrivato il mio turno nella lista delle prenotazioni in biblioteca. Sono sintonizzato su un canale a prova di Radio Maria, nulla può distrarmi. Ma è come se avessi un sistema di difesa personale che esercita un’analisi dei contenuti, prima di consentire l’ingresso ai dati attraverso il firewall. La keyword questa volta è la parola “gay”. Non mi sono nemmeno reso conto che i 3 posti limitrofi al mio sono occupati da altrettanti pendolari, volti già visti. Due ragazze sulla trentina, di fronte, e un impiegato che ostenta un look tra l’agente immobiliare e il testimone di geova, al mio fianco. Viaggiano sempre insieme e sono da evitare come la peste, fidatevi. È ora di fare un blog di foto segnaletiche, altro che di facezie come questo. I tre wanted salgono la stazione successiva alla mia e oggi non è stato possibile non soccombere alla collisione.

“Racconta a Valerio dello scherzo che abbiamo fatto a Tiziano”, dice la trentenne A alla trentenne B. “Da morire”, inizia così la narrazione la trentenne B all’impiegato, che scopro appunto chiamarsi Valerio. Prendete nota. “Tiziano non sopporta i gay, davvero, li odia”. È questa frase che, come un’interferenza dopo una curva su una qualsiasi strada provinciale del litorale ligure alterna acriticamente le stazioni radio, irrompe alla mia attenzione. Che non è tanto il fatto che Tiziano odi i gay. Il mondo è pieno di gente stronza. Ma che una persona possa pensare di raccontare una storiella con un incipit simile in pubblico senza un minimo di pudore. “Allora praticamente sono andata sul sito dell’Arci Gay e ho trovato un fac simile della tessera. L’ho stampata, gli ho incollato su la sua foto con nome, cognome e firma, e poi gliela ho messa sulla scrivania”. I tre ridono di gusto e l’aria si fa satura dell’olezzo di una colazione dozzinale appena consumata nel bar della loro stazione di salita, probabilmente cappuccio e cornetto industriale testé gonfiato da un microonde.

Non so se ci sia stato un seguito, tipo che Tiziano abbia fatto un fotomontaggio delle due colleghe impiegate vestite da Nicole Minetti o in piscina con Rocco Siffredi, magari di Nicole Minetti in piscina con Rocco Siffredi, cosa che forse avrei fatto io se fossi stato un collega gay delle due trentenni, magari pubblicandolo in home page del sito aziendale. Sono sceso prima dell’happy end e non ho sentito il finale della barzelletta. Ho fatto attenzione al gap tra me e loro, fingendo di essere nella metropolitana di Londra. Quindi sono salito a rivedere le stelle, procedendo immobile sulla scala mobile, tenendo, come tutti, rigorosamente la destra.

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