non è neanche avere un’opinione

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Ieri sera alle 00.30 circa, ho terminato la seicentoventesima o giù di lì pagina di Libertà di Jonathan Franzen. Quella con il timbro della biblioteca, che sancisce la fine dei tempi regolamentari. Poi via con i tempi supplementari, a muovere tutti gli ipercalorici contenuti di cui mi sono nutrito durante le ultime settimane giù, dalla testa verso la pancia, e capire che c’è ben poco da dire; è un romanzo in sé, c’è tutto. Tutte le famiglie del mondo, tutti i genitori, tutti i figli, gli amici, i fratelli e le sorelle, le amanti, le case. Persino i gatti, a discapito degli uccelli. C’è la città per antonomasia, e c’è la natura che è un po’ la metafora stessa del modo in cui è bene leggere questa storia, alla cui conclusione – quella che Franzen prepara per un capitolo intero – si arriva dopo sentieri in piano, quelli che in costa sovrastano vallate e ampie visuali, e gli angusti passaggi in conifere fitte, a schivare rami pungenti che ti lasciano comunque il graffio sulle braccia. Pur di una tacca sotto Le correzioni, è complessivamente più maturo e più completo del suo fratello maggiore. Un romanzo con cui altro non si può fare che leggerlo, consumarlo, e appiccicargli addosso cinque stelle, “as is”.

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