servo muto

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Quello che mi pesa di più del mio lavoro è che si parla poco. Mi pesa perché ormai, dopo oltre quindici anni di attività, ho smarrito una delle mie qualità grazie alle quali, giusto per tirarmela un po’, me la sono cavata piuttosto bene alla maturità e, soprattutto, all’università. Ma anche dopo, quando dovevo convincere qualcuno di qualcosa. Avevo pure una buona dialettica, motivavo e dimostravo, raccontavo a voce senza sforzo, chiacchieravo anche fin troppo, me la cavavo piuttosto bene di fronte a tante persone, mi è capitato di tenere corsi anni fa e, insomma, non è andata poi così male. Ma la facondia, che per certi versi è un dono, non è solo un’arte, è anche una disciplina che va coltivata, nutrita e, soprattutto, esercitata.

Così da quando ho acceso il mio primo strumento di lavoro, che è stato un Mac, da allora la parabola è iniziata a decrescere. E all’inizio facevo fatica a tenere la bocca chiusa, cercavo di chiedere, chiacchieravo al limite del disturbo, ma vedevo che i colleghi senior, gente che veniva dai dueottosei e già chini sui terminali mentre io cercavo di realizzare i miei sogni facendo il musicista, a malapena tolleravano le distrazioni dai loro monitor a 256 colori.

Così per sopravvivenza mi sono adattato, è stato un processo naturale quello di iniziare a relazionarsi solo con il proprio elaboratore. C’erano le pause sigaretta, i caffè, il pranzo, qualche battuta, ma ormai avevo imboccato anche io la strada della granularizzazione totale, che è poi anche la morte sua del lavoro postfordista, ognun per sé e si fotta l’unione dei lavoratori, tanto c’è il pc e i colleghi si fanno tendenzialmente gli affari propri. E mi accorgevo che, pur leggendo come un forsennato, tenere i pensieri in gola per otto ore alla fine arrugginiva quel meraviglioso impianto di diffusione audio di cui l’individuo è dotato.

Ma se fai il programmatore, a parte chiedere quando hai bisogno, non serve scambiare battute con il dirimpettaio, anzi ti distrai e perdi il segno e devi rifare il flusso tutto da capo. Il grafico si blinda in cuffia e vola nel suo mondo della Suite Adobe, e ci si vede a fine progetto, ognuno con i suoi pezzi, chi ha scritto le parole, chi ha disegnato l’interfaccia, chi ha costruito il motore, si assembra il tutto, sempre sul computer, e poi bon. Per non parlare poi dell’avvento dei socialcosi, insomma avete capito dove voglio andare a parare, è comodo comunicare scrivendo perché rileggi tutto, cancelli i refusi (se li vedi), metti due faccine e schiacci enter.

Ed eccoci qui, soli con il ronzio del condizionatore, a scrivere testi e idee e progetti giorno dopo giorno nel silenzio assoluto, le dita su tastiere sempre meno rumorose, i più audaci le cuffie isolanti da cui non trapela nulla, non esistono quasi più nemmeno le stampanti con il loro rumore da telefilm di fantascienza. Alla riunione aspetti il report finale, se ci sono domande fai un reply to all, ogni tanto qualche squillo del telefono o la vibrazione di un cellulare di vecchia generazione, addirittura si percepisce lo sciacquone di chi è in bagno.

E se per caso devi parlare, la voce esce dopo un eh ehm di rito, la sensazione è quella di far passare un mobile ingombrante da una porta troppo piccola, provi a girarlo e rigirarlo ma non c’è verso, devi fare forza fino a quando esce tutto malconcio. Già, perché le cose in testa ci sono, magari un po’ impolverate, metti in ordine i sostantivi, il lessico fortunatamente aumenta giorno dopo giorno, libro dopo libro. Ma le casse gracchiano, forse i cavi non sono collegati correttamente, subentra l’imbarazzo, persino un po’ di rossore sulle guance, l’interlocutore che ti scruta perché ha fretta di sapere, ecco mannaggia quel dato da dire ha lasciato posto al panico da prestazione, la consecutio va in tilt come un qualsiasi programma che necessita di troppa memoria quindi meglio non usarla, tanto se devi dare risposte brevi e mirate chi nota se il congiuntivo è presente o passato. È passato? Mah. Poi ripiomba il nulla. Ciao, a domani, buona serata. Questo almeno è facile da dire.

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