berghem

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Quello dal palco arringa alla folla, urla “Padaniaaaaaaaa!”. E la folla risponde “Liberaaaaaa!”. E lui ancora “Padaniaaaaaaaa!”, e la folla di nuovo “Liberaaaaaa!”. La politica riassunta negli slogan fa accapponare la pelle dall’imbarazzo, anche a noi riesce difficile nei cortei cantare a una voce lo spirito comune, perché la sintesi della sintesi della sintesi, alla fine una parola o due, lascia perplessi perché è sempre più distante dalla realtà. Le valli del dio Po, per esempio, sentono la stessa solfa da decenni. “Secessioneeee!” esclamano casalinghe e montanari avvinazzati, giovani idealisti e bikers borchiati e ingilettati, sempre più neri e sempre meno verdi. E a parte gli spokesperson che credono ancora in quello che rimane del Bossi e sono dati in pasto agli inviati dei tiggì, la base è tutta schierata con quelli che sì, va bene la libertà da Roma, ma leviamoci dalle scatole quel puttaniere. Ma la festa dei popoli padani è telegenica ugualmente e il rito dell’ampolla è ancora più retorico dello slogan. Ci vogliono decenni perché una tradizione diventi tale, ci vogliono nonni che raccontino ai nipoti della prima volta in cui venne celebrato il dio Po. Ma nessuno ammette la verità: il cammino intrapreso verso l’autodeterminazione del popolo del Nord ad oggi ha raggiunto solo un importante risultato, il nome in dialetto sui cartelli stradali. Il primo passo è compiuto.

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