un giro così ti capita una volta nella vita

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Se avete intenzione di mettere su un gruppo musicale, indipendentemente dal genere che avete in testa o dalle vostre finalità, prima di reclutare compagni di avventura sappiate che l’insieme dei musicisti è composto da due principali categorie: quelli supertecnici e quelli che hanno gusto. Ci sono poi altre due categorie secondarie: quelli scarsi e privi di gusto, che pur essendo la maggioranza non hanno nessun peso nell’evoluzione dell’arte musicale, e quelli che suonano da dio e in più hanno un gusto della madonna, un connubio ultraterreno che li proietta verso lo star system a patto che decidano di intraprendere la carriera. Alcuni tra questi non riescono comunque  a causa della sorte avversa, è il caso del il sottoscritto. Ehm.

Sciocchezze a parte, la storia della musica è satura di musicisti appartenenti alle prime due più comuni famiglie, sicuramente le meno esclusive e dal più facile accesso. Inutile sottolineare la mia propensione per i musicisti che hanno gusto, quelli per i quali non importa la propria parte nei pezzi. Già, il contributo deve essere esclusivamente finalizzato alla riuscita della canzone, quindi è il senso dell’insieme che deve condurre verso l’ideazione della parte più adeguata.

Pensate ai giri di basso e a quanto sono basilari per l’armonia di un brano; si tratta dell’esempio più facile per rendere l’idea ai non addetti ai lavori. Sta di fatto che se ripenso a tutti i bassisti con cui ho suonato, oltre a distribuirli facilmente tra i quattro sottoinsiemi di cui sopra, ne salvo giusto un paio, e caso vuole che entrambi siano bassisti di estrazione reggae evolutisi in quel non-genere che i più definivano ai tempi trip-hop. Bravi anche i bassisti new wave, quelli che consumano un plettro a concerto, ma solo se superano i cliché del seguire pedissequamente il cambio degli accordi e l’uso indiscusso delle toniche.

E se vi va di sapere quale sia il mio giro di basso preferito, si tratta della parte di Tina Weymouth dei Talking Heads in “Once in a lifetime”, tratta da “Remain in light”, uscito nel 1980. Sono le proverbiali tre note ripetute a loop in tutto il pezzo, un bordone che rimane invariato anche nel ritornello malgrado i cambi di accordo. Gran gusto e poca tecnica, tanto che so già che qualcuno di voi penserà “eh ma che palle suonare per quattro minuti sempre la stessa parte”. Ma non è quello il punto: è il guizzo compositivo, lo spostare il beat forte iniziando ogni battuta in levare per sbilanciare la simmetria del pezzo. Si colgono le influenze della musica di Fela Kuti mediate dal genio di Brian Eno, e la linea di basso ne costituisce il cardine. Amici bassisti, che questo brano vi sia di monito: se cercate il groove, iniziate da qui.

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