una piazza e mezza

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Lui è un tipo davvero tosto, grande e grosso, quello che si dice un marcantonio, la bocca larga e una dentatura perfetta. Parla a voce chiara e determinata, ha modi brillanti e sembra impossibile trovarlo noioso, magari un po’ arrogante sì. Uno piuttosto belloccio, vestito alla moda, uno stile business casual, e con un borsello colorato da cui spesso estrae un iPad, collega gli auricolari e ne porge metà a lei. Lei che è altrettanto caruccia, ora che fa freddo calza un paio di Ugg pelosissimi e leggins invernali, sta molto bene con il cappello perché ha lineamenti graziosi e moderni. Sì, moderni, nel senso che è dotata di una bellezza molto comune al nostro tempo.

Lei sembra subire però lui che con la sua esuberanza la sovrasta. Cioè non mostra segni di usura, no. Piuttosto si atteggia come se fosse in balia della di lui sicumera, me la immagino sfrecciare a mille all’ora in autostrada su una moto guidata da lui, aggrappata con fiduciosa ansia al centauro ma solo nella parte inferiore, quella a motore, perché quella superiore è umana e in quanto tale è imperfetta. Si siedono sul treno e seguono insieme un episodio della loro fiction preferita, una delle tante tra quelle che piacciono a tutti. Lui tiene sempre la bocca semiaperta, sembra che a malapena riesca a contenere tutti i denti, e non si capisce mai quando ride e quando no. Lei ha sempre la stessa espressione e accetta tutto quello che pensa lui, osserva la decisione scaturirsi dallo sguardo e attraversare tutti i muscoli della faccia, gli zigomi alti e la mascella da supereroe Marvel. Una parte viene verbalizzata attraverso l’apparato fonatorio, l’altra corre giù, scompare dentro la sciarpa in cashmere e finisce chissà dove. Avrà un serbatoio da qualche parte che svuoterà a casa, o per la strada o nei cestini della stazione una volta sceso dal treno. Lui parla e lei ascolta. Ma si nota il dubbio che si insinua in lei.

Come volevasi dimostrare. Lei era in piedi sull’ultima rampa di scale, qualche giorno fa, la gambe leggermente divaricate, la sinistra sul gradino e la destra su quello più in basso, aveva una gonna a quadri lunga e tesa la massimo. Gesticolava portando mani e braccia verso il basso, come se stesse cercando di schiacciare l’aria dentro un borsone già pieno di altra roba, maglione e libri e chiavi di casa portafoglio tupperware con gli avanzi della schiscetta. Ma non c’era niente e non stava facendo nulla di tutto questo, se non evitare di lasciar cadere a terra parole solide come cubetti di porfido scagliate in testa a lui, seduto inerme tra quei due gradini. Il mento gigantesco sorretto da entrambe le mani, i gomiti sulle ginocchia, la testa in un costante movimento come a dire no, è impossibile, no, non è vero. E forse era quello che stava dicendo, perché piangeva a dirotto, lui, ed era innaturale. La bocca sempre larga e semiaperta con tutto il suo contenuto bianco, la sciarpa di cashmere questa volta arrotolata in grembo. Lei lo stava lasciando, si stava facendo restituire tutto quello che lui si era tenuto per sé, tutti i pareri che gli era sembrato superfluo chiederle, tutte le possibilità che non ha ritenuto mai degne di condivisione in uno spazio comune, quello spazio che per lei sarebbe stato, ogni giorno, sempre un po’ di meno.

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