se c’è un motivo

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Il processo creativo corale in musica, mi riferisco ancora a quella deformazione della personalità che i più definiscono con l’avere una band, è un fenomeno che non ha eguali in nessun altro campo artistico. Lo ammetto. Questo senza tener conto del risultato e della qualità del prodotto. L’atto in sé del comporre è uno spurgo di stati d’animo individuali senza precedenti e stupisce sempre il loro amalgamarsi con facilità con quelli altrui, sia in stato di comprensione o empatia dei musicisti con cui ci si accompagna che in quello di fraintendimento o mera versatilità da un’indole “di mestiere” e commerciale di un produttore dietro al software da home studio di turno. Gli spunti possono nascere ognuno imbracciando il proprio strumento in sala prove, l’alchimia della scintilla che genera il capolavoro è possibile ma non così semplice. In questo è di fondamentale importanza l’ambiente in cui si crea, non dico che occorrerebbe disporsi con gli strumenti secondo il feng shui, di certo più si è a proprio agio, come in tutte le attività, più piacevole sarà il lavoro. Nella mia ultima esperienza di esecuzioni collettive, la sala prove era un box rettangolare e in cinque eravamo costretti praticamente in fila indiana. Senza contare l’insonorizzazione solo parziale e il gruppo reggae nel box a fianco che si percepiva distintamente tra un pezzo e l’altro, annientando quella piacevolezza che si prova con il silenzio dopo aver suonato una canzone nel migliore dei modi. Non è durato a lungo.

Più frequente la condivisione delle proprie bozze, che ciascuno leviga e struttura apportando il proprio valore aggiunto fino all’opera compiuta, a volte specchio della prima release, a volte completamente stravolta. Il rischio è quello di pensare l’ensemble a disposizione a propria immagine, avere già ben delineato in mente il risultato finale di cosa si va a proporre e di respingere i tentativi di ciascuno di fare propria l’idea altrui. Qui gioca un ruolo decisivo la personalità di ciascun elemento e la predisposizione alla condivisione delle proprie produzioni, che è come dare in pasto se stessi agli altri. In questo occorre essere pronti alla vita in comune e il feeling deve essere a livelli elevatissimi. Se suonate lo sapete meglio di me, avere un gruppo è come avere una famiglia. Ci sono le stesse dinamiche, possessione, gelosia, inclinazione a far soffrire o a sacrificarsi, voler comandare, parlare senza far nulla eccetera eccetera. E per chi come me ha smesso, ogni tanto qualche nostalgia emerge pur nella accertata soddisfazione dell’aver realizzato l’impossibilità oggettiva di portare avanti coerentemente un progetto musicale. Ho appena letto un’intervista ai The National qui (via Slowshow, naturalmente) circa lo stato già avanzato del materiale per il loro prossimo album. Matt Berninger, fornendo qualche dettaglio sul loro modo di  far nascere le nuove canzoni, mi ha permesso di ricordare quella rara sensazione, che nella mia lunga esperienza mi è capitata solo una volta, di serenità nel confronto tra teste diverse e, soprattutto, adulte. “Aaron has given me about 10 ideas so far. He seems to be in some sort of really weird creative space. He recently had a baby, so maybe it’s a lack of sleep. He’s wired differently. The songs he’s given me are much less cerebral and academic and much more immediate and visceral than usual. I’m in love with them. I just spent all night listening over and over to some things he sent. I think they’re some of the best things he’s ever written. And I think it might be because he’s not thinking about it that much. He isn’t putting everything through the filter of Important Music as he has in the past. The music just seems to be working on a pure gut level“.

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