a scatola chiusa

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Sono certo che la decisione bilaterale di mettere al mondo una creatura valga la pena anche solo per decidere insieme come si chiamerà. E non credo che si tratti di una deformazione professionale dovuta alla mia ossessione per titolare e nominare ogni cosa con una parola che sia di sintesi o, per ironia, ne descriva il contrario. Fare le liste e trovare il nome che più potrebbe somigliare a qualcuno che deve ancora nascere non è banale, oltre che essere una decisione complessa.

E te ne accorgi mentre ascolti le discussioni altrui, perché non appena si comunica la bella notizia a terzi, la prima curiosità che ci viene domandata è proprio come si è deciso di registrare il nascituro all’anagrafe e così si motiva la decisione presa in modi che a volte fanno tenerezza come se ci si volesse giustificare con il mondo perché, si sa, la percezione della bellezza di un nome è assai soggettivo. Volevamo che si chiamasse come il nonno, ci piacciono i nomi esotici, abbiamo sorteggiato da una rosa di possibilità o, è il nostro caso, volevamo un nome che scampasse al destino dell’abbreviazione.

Non a caso ci si guarda bene dal commentare le argomentazioni a supporto di questo o quella opzione per non urtare l’altrui sensibilità. Anche se di fronte a certe sperimentazioni nelle quali è impossibile non criticare mentalmente l’accostamento decisivo tra un nome lappone e un cognome tipico calabrese, o l’ormai diffusa abitudine di scegliere nomi stranieri – non ultimo Beyoncé che fa sembrare un Kevin o un Maicol o una Jennifer quei soprannomi di campagna di una volta – sarebbe opportuno tentare di arginare il fenomeno con attività di persuasione più o meno occulta sul prossimo. Certo, ci stiamo finalmente evolvendo verso una società multietnica, ma di norma sono i nuovi cittadini o gli aspiranti tali che spingono affinché i loro figli siano il più possibile integrati nella società che li sta accogliendo.

Ci sono infine quelli che scelgono i nomi più comuni possibili (condivido in pieno) per evitare che il figlio o la figlia siano messi alla berlina a partire dall’appello scolastico, chi segue le mode ed è per questo che crescono intere generazioni di Martina o di Tommaso, c’è ancora chi limita la rosa tra i nomi degli apostoli e degli arcangeli. E poi ci sono quelli che hanno letto un libro in cui una staffetta partigiana aveva un nome avvincente, efficace ed originale ma solo perché d’altri tempi, e decidono che quello è perfetto. A noi è successo proprio così. E qui al paese in cui viviamo era un nome che non avevo mai sentito. Poi ricordo di averne parlato con un’amica in treno, mancavano ancora diversi mesi al parto, e, chissà perché, ho avuto l’impressione che qualcuno seguisse con interesse la discussione. Fatto sta che, spingendo al parco il passeggino qualche mese dopo, rimasi sorpreso assistendo a una madre che si rivolgeva alla figlia di pochi mesi più grande della mia, chiamandola allo stesso modo. Dio, che smacco. Peraltro notai che, a differenza di mia figlia, quel nome non le si addiceva per nulla. Tsk. E avrei potuto anche passare per uno che copia perché quella bambina era più grande. Ma poi ho pensato che certo, il padre avrà senz’altro assistito alla conversazione sul treno andando in ufficio e avrà messo al corrente la moglie. Cara, ho sentito uno in treno che ha scelto questo nome, che ne dici? Di sicuro è andata così. Ecco perché non bisogna mai svelare i segreti industriali.

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