in dolce attesa

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Se mi vedete indugiare fermo da qualche parte, o mi incontrate più volte nel raggio dello stesso punto a distanza di qualche minuto. Se mi notate in un bar consumare un cappuccio e brioche al rallentatore guardando persino la tele accesa su Studio Aperto o sfogliando le pagine di quotidiani di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza tipo La Provincia, ma facendo finta di leggere o meglio guardando solo le figure e le didascalie perché comunque il taglio degli articoli lo si evince dai titoli quindi meglio evitare. Se vi sembra strano che uno come me si aggiri lungo vie a misura di automobile dove c’è solo una persona – e quella persona sono io – che cammina su marciapiedi fatiscenti che non sono più marciapiedi, tanto che ormai chi vive lì ha rinunciato a considerarli tali e se ne guarda bene dal muoversi a piedi, o magari addirittura lì non ci vive più nessuno e quindi comunque sono l’unico essere umano a trovarsi in quel posto e non è difficile dare nell’occhio tra le auto che sfrecciano in un senso e nell’altro. Se mi beccate mentre faccio finta di attardarmi leggendo avvisi in bacheche di associazioni locali che nemmeno i soci leggono più perché chiunque va sul sito e si informa lì, e sono io il solo che, finito il comunicato, passa in rassegna la foto della squadra under 16 di basket o le immagini della gara di pesca sportiva al carpodromo comunale. Se mi trovate su una panchina a leggere il mio libro con l’enorme barriera psicologica che è controllare ogni due minuti se il momento dell’appuntamento si è davvero avvicinato di due minuti rispetto alla precedente occhiata data all’orologio da polso, tutto ciò è perché sono in lauto anticipo, come tutte le stramaledette volte in cui ho un impegno.

Ma non mi pesa, sappiatelo. Prendo treni all’alba per giungere a destinazione con almeno trenta minuti di vantaggio, e poi a quel punto inizia l’annosa ricerca di come impiegare il tempo che resta senza dare troppo nell’occhio. Perché c’è anche un rischio, che costituisce uno dei miei maggiori incubi: farsi scoprire in un bar o nelle vicinanze del posto in cui si è diretti dalla persona che si deve incontrare che poi, rendendosi conto dell’anticipo, si sente in dovere di anticipare a sua volta l’incontro e la figura non è delle migliori. È che ho il terrore di arrivare in ritardo sempre, che poi il ritardo non è la fine del mondo o almeno così ti dicono, ma a me non piace proprio perché se si dice un’ora è quella, altrimenti se ne dice un’altra un quarto d’ora dopo, giusto? Ricordo un bassista inglese con cui ci si dava appuntamento in un posto per utilizzare da lì in poi un solo mezzo per recarsi tutti insieme al locale in cui si suonava, e costantemente ci rimproverava per la totale aleatorietà delle nostre indicazioni e lui per non sbagliarsi arrivava molto prima degli altri. Arrivavamo e lo vedevamo con l’espressione di chi è costretto ad aver a che fare con un popolo che si attarda con pizza e mandolini e non ha rispetto per le civiltà superiori. Ho imparato molto da quella esperienza. E se sono esagerato è solo perché preferisco di gran lunga la noia dell’attesa rispetto all’ansia del non fare in tempo, la coda inaspettata, il treno soppresso, il terremoto e il meteorite e i maya che ti fanno saltare un’opportunità ancora prima di cancellare un pianeta in quattro e quattr’otto. E così anche oggi mi rimane giusto il tempo di annotare qui queste poche righe mentre aspetto il mio turno previsto non prima di venti minuti a partire da ora. Vedete, se non fossi arrivato così presto non mi sarebbe nemmeno venuto in mente di scrivere qualcosa a proposito.

10 pensieri su “in dolce attesa

  1. Zagabart

    Che bello, non sono il solo ad arrivare in anticipo (a volte anche più di mezzora, comunque…)
    Però non bisogna vivere male questa strana cosa: ti permette di avere un po’ di tempo…vuoto, nel quale avere pensieri, partire con la fantasia, osservare la gente. Non è necessario doverlo impegnare a tutti i costi con qualcosa di pratico, no?

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