la paura nel buio

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Anni dopo è capitato che mi sia servito di quella casa, che nel frattempo era stata parzialmente ristrutturata rispetto all’uso prettamente rurale per cui era stata costruita dai bisnonni, come pied-à-terre di fortuna. Non avevo una abitazione mia e la voglia di intimità totale o di coppia era troppa per essere risolta in automobile o altrove. Così mettevo a tacere lo stato di inquietudine che il soggiorno in cima a quella collina mi suscitava e il disagio di restare in una casa così isolata in cui io, in quanto componente maschile e adulta, ero tenuto a ricoprire il ruolo che la cultura diffusa vedeva naturalmente preposto anche alla eventuale difesa degli inquilini e ospiti. Difesa da qualunque tipo di minaccia, dai topi di campagna fino ai serial killer, tutta una gamma di imprevisti mai verificatisi verso i quali comunque non avevo dubbi circa la mia inadeguatezza. E a dir la verità una volta un topo in casa l’ho visto, anche se molto tempo dopo. Mi stavo lavando i denti in bagno e con la coda dell’occhio l’ho notato attraversare il pavimento e nascondersi dietro la colonna del bidet, ed è stato allora in cui ho realizzato che era arrivato il momento in cui avrei dovuto mio malgrado dimostrare la prontezza necessaria a risolvere il problema. A fare la cosa giusta e tempestiva per tenere alla larga la famiglia che nel frattempo mi ero creato dagli elementi estranei all’ambiente interno domestico. Topi e insetti, anche in campagna, devono rimanere fuori. Non sapendo come comportarmi, non ho dato previsioni e ipotesi campate in aria e ho aspettato il giorno successivo. Mio padre ci avrebbe raggiunto per prendersi cura del suo orto e avrebbe preso in mano il problema.

Mia moglie ed io tenemmo la porta del bagno chiusa fino al suo arrivo trentasei ore dopo. Mio padre era capace a venire a capo delle cose solo a modo suo, in quell’occasione posizionò una trappola con un po’ di formaggio e la mattina successiva trovammo il topo schiacciato dalla molla e io mi convinsi ancora una volta che tra un topo vivo e un topo morto è meglio avere a che fare con un topo vivo. Io non avrei saputo fare di meglio. Quello è stato il maggior pericolo a cui mi è capitato di rimanere esposto con qualcuno nella cascina di famiglia. Ma in precedenza, mi riferisco ad almeno quindici anni prima, nel corso di soggiorni per usi diciamo più promiscui, provavo quella miscellanea di sensazioni che va dalla consapevolezza del fatto che di più non mi sarei potuto permettere e l’espletamento di un dovere, quello di fornire un rifugio a un rapporto sentimentale che altrimenti si sarebbe spento prima o poi, come la batteria di un’automobile lasciata ferma di notte con i fari accesi e lo sconforto che subentra la mattina seguente alla presa in atto del danno, quando non è possibile fare più quello che si era pianificato.

Ma l’inquietudine era tale che, giustificandolo come comportamento tipico di chi vive in campagna, lasciavo accesa la lampada sulla porta di ingresso, la stessa che illuminava lo spiazzo antistante e che si usava tenere in funzione come faro di orientamento per chi sceglieva di stare fuori la sera e doveva rientrare al buio. Da quando gli Smiths poi avevano pubblicato “There’s a light that never goes out” non trovavo immagine migliore di quella: io che salivo lungo le pendici della collina per raggiungere quel punto luminoso lassù in cima, che avrei trovato preso d’assalto da falene e vari insetti notturni. Ma restare a letto con le luci spente dentro e una luce accesa fuori è snervante per chi non può fare a meno dell’oscurità per addormentarsi, così alla fine facevo finta che non serviva più e contavo sulle condizioni atmosferiche, cielo più o meno sereno, e sulla fase lunare per garantire un minimo di chiarore in stanza. Una notte avvenne che dalla camera adiacente a quella in cui la mia fidanzata di allora ed io giacevamo notammo provenire una luce anomala, ma nessuno dei due formulò alcuna ipotesi all’altro un po’ per non inserire ulteriore irrazionalità e un po’ per non sentirci poi costretti a verificare di persona di cosa si trattasse. Era la camera dei bisnonni, morti entrambi da più di mezzo secolo. Quella notte passò indenne, e l’alba giunse come d’abitudine. Il vantaggio di quella casa era che le stanze da letto erano numerose, così come se si trattasse di una decisione presa di comune accordo anche se in realtà nessuno dei due vi aveva fatto il minimo accenno, decidemmo di trasferirci al piano inferiore, non c’era certo problema di posto e la luce accesa, quella fuori, sarebbe stata ancora più confortante.

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