untitled, ma quella vera

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Dieci anni fa usciva “Turn on the bright lights”, il primo long playing degli Interpol nonché il primo vero segnale che tutto quel rimescolamento di piani curtisiani (perdonate il neologismo) che c’era in giro stava realmente portando a qualcosa di nuovo nell’aria, anzi di antico ma rivisto. C’era già stato qualche epigono qui e là dei gruppi che mi avevano accompagnato durante l’adolescenza e in alcuni casi la somiglianza era troppo smaccatamente derivativa. E nella maggior parte di quello che si legge in giro e delle opinioni poi consolidatesi nel tempo con la pubblicazione degli album successivi, non era solo il timbro di Paul Banks a fare il verso ai Joy Division ma c’era di più. Un giudizio tutto sommato superficiale e non perché piacciono a me. Gli Interpol, già solo per il fatto di essere newyorkesi, hanno quella patina un po’ ruvida e distorta addosso che agli inglesi – sarà per questione di accento – non riesce mai, e soprattutto nel loro primo lavoro che, come tutti gli esordi, è ad oggi considerato il loro disco migliore. Lessi la recensione non ricordo dove senza aver mai sentito nulla. Lo stesso giorno entrai al Libraccio di Via Vittorio Veneto e indovinate un po’ che pezzo stavano ascoltando lì dentro. Ero convinto si trattasse proprio dell’album di cui ero appena venuto a conoscenza e che mi aveva colpito per alcune parole chiave che potete immaginare. Il pezzo era il seguente, chiesi informazioni ed estrassi all’istante la carta di credito.

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