se uno guarda al peggio

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Imbattersi in persone che lavorano duro o sono in difficoltà o in sofferenza mentre si è intenti in attività ludiche o ci si rilassa o, perché no, si sta allegramente cazzeggiando è un situazione che può generare imbarazzo soprattutto da questa parte, quella disimpegnata, mentre nella controparte è difficile indovinare lo stato d’animo perché può trattarsi di una nostra impressione viziata dalla coscienza. Ed è una sensazione che ho imparato a conoscere quella volta in cui trascorsi un pomeriggio intero di fine estate a creare copertine personalizzate ad alto livello artistico per la mia collezione di musicassette mentre un mio caro amico sudava freddo con la trigonometria per l’esame di riparazione. D’altronde non era certo colpa mia se durante l’anno scolastico io avevo studiato e lui no, ma quando ci confidammo le rispettive attività al telefono ricordo che mi liquidò con un “certo che non c’hai proprio un cazzo da fare” e non mi rivolse più la parola fino alla sicurezza acquisita della sufficienza.

Da allora mi chiedo se sia naturale sentirsi in colpa oppure no per i privilegi di cui diamo per scontato il merito di godere al cospetto di chi certe fortune non può nemmeno sognarsele. Ma chissà se spetta a noi salvare il mondo, fermare tutte le guerre, sfamare le popolazioni del sud del pianeta e smascherare i grandi complotti del nuovo millennio appena iniziato o, molto più alla nostra portata, sforzarci nel ricostruire il motivo che ci ha consentito di oziare per diciotto giorni di fila su una spiaggia mentre robusti ragazzi africani sfidano il nostro senso degli affari con articoli di dubbia utilità, ogni giorno con la stessa strategia di marketing che a lungo andare uno si spazientisce e poi il senso di colpa raddoppia e il venditore si accorge della crepa dalla quale è pronto a insinuarsi a colpi di aquiloni, teli da mare e braccialetti a un euro. E tu gli dici ancora “no grazie, non ho bisogno di nulla” che probabilmente suona un po’ didascalico in quello scenario. La natura, il mare in una nuance dall’azzurro chiaro all’indaco, il sole e i quaranta gradi e un uomo dai lineamenti caucasici sdraiato all’ombra che si vede che non ha bisogno di nulla versus uno degli ennemila senegalesi che fanno spola tra tutte le spiagge per trasformare tutta quella paccottiglia in qualche spicciolo da dividere in parti inique con la camorra. E la seconda e la terza volta che ripassa di lì e si ricorda benissimo di te e ti dice che se tutti facessero così, come quel tu generico che poi sono io, lui non potrebbe nemmeno mangiare e dare qualcosa ai suoi cinque figli. E ribadirgli che non sapresti cosa acquistare tra il suo portfolio di prodotti superflui non è la cosa più opportuna.

Stesso discorso quando ti dedichi allo sport, e non mi riferisco a casi limite tipo farsi scarrozzare per il campo da golf da ragazzini sottopagati. Magari corri per il parco e ti imbatti in persone disperate sedute sulla panchina che non sanno che pesci pigliare perché tutte le strade per conquistare una dignità sono loro precluse. Oppure, e questo mi succede ogni volta, incontri la matta del paese, che qui è una specie di homeless con i capelli lunghi lisci e bianchi che sta sempre seduta alla stessa ora sullo stesso gradino. Una circostanza che mi fa pensare se è lei quella un po’ spostata che si piazza sempre nel medesimo posto o se sono io che faccio sempre lo stesso percorso per di più con un’andatura innaturale e volutamente forzata per faticare gratuitamente e sudare quando non ce ne sarebbe il bisogno. Ma il momento più difficile è quando devi superare ragazzi come te ma a spasso sulla carrozzella, con la mamma o l’amico che li spinge e tu che hai tutta la forza nelle gambe e ti chiedi se dare il massimo anche un po’ per loro sia una forma di redenzione ammessa dal diritto naturale.

Ci consola unicamente il pensiero che correre sia la più proletaria delle attività fisiche, non costa nulla e può anche essere unita ad altri passatempi addirittura utili per l’umanità, come pensare a cosa scrivere qui e a come concludere un tema su cui è facile scivolare e farsi male con cose tipo che sarebbe peggio se stessi facendo capoeira all’aperto e passasse di lì il corteo dei lavoratori di una fabbrica che ha appena trasferito in Romania la produzione e licenziato tutti senza ritorno.

2 pensieri su “se uno guarda al peggio

  1. …se uno guarda al peggio, sicuramente si consola, ma tende a “sedersi sugli allori”, “a tirare i remi in barca”…
    🙂 Salutissimi e mi sento di dire che quel tuo amico che stava riparando la materia insufficiente, era il classico Italiano che se “io sto male, allora l’intero mondo deve stare male”. Non devi avere nessun senso di colpa, anzi devi solo avere molta pazienza con questo tipo di persone. Ancora un saluto, N.

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