station to station

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Gli uomini, a differenza di noi, pensano solo quando sono sotto stress. Lo dice una donna a una sua amica, entrambe al mio fianco, che sino a poco fa si lamentava del fatto che il suo fidanzato, che da queste parti si dice moroso, non ne vuole sapere di sposarla senza l’urgenza di una gravidanza. Si tratta di una tematica che ha invaso la mia attenzione spostandola dalla storia di cui ero spettatore, anzi lettore, fino a pochi istanti prima. E non me ne voglia la mia casuale compagna di viaggio se l’interesse è di molto inferiore e sono capitato su quelle parole forzatamente, visto anzi sentito il volume alto della conversazione. Aggiungerei che penserebbero di più, gli uomini, se non fossero distratti da discussioni un po’ così. E a dirla tutta sui due piedi, visto che di posti a sedere non se ne vede nemmeno mezzo, anche io troverei scuse su scuse per non sposarla.

In più, malgrado lo spazio a disposizione – per darvi un’idea sono costretto a reggere il mio libro a pochi centimetri dagli occhi con tanti saluti alla mia presbiopia – la donna gesticola per evidenziare con scie invisibili quel concetto. Le due mani parallele ravvicinate a rappresentare un’idea di chiusura, di scarsa lungimiranza, un contenitore tridimensionale che, sebbene tutto da immaginare, mette claustrofobia. Ma io lo vedo che si tratta di uno sfogo del momento, gli scioperi dei trasporti creano disagio e catalizzano la rabbia degli utenti nel privato più di ogni altra cosa. Famigliari, colleghi in ufficio, sempre che in ufficio ci si arrivi, e soprattutto compagni di sventura. La solidarietà di classe è un concetto morto definitamente con Hobsbawm qualche giorno fa, il filo che esce dagli smartphone e si inabissa nelle orecchie degli individui poi prosegue verticalmente invisibile verso altri output ubicati chissà dove. Dietro una tv, un decoder, un personal computer pronto a dare battaglia al mondo con commenti sgrammaticati su social media. Non c’è quindi un legame orizzontale, quella prospettiva di occhi e di orgogli che muoveva il quarto stato verso la riscossa sociale nella celebre iconografia dei primi del novecento. Oggi sarebbe ancora più semplice con un collegamento wireless o bluetooth per la condivisione dei moti. Ma non funziona più. La gente è solo gente quando è a casa propria.

Poi però mi attira l’attenzione una signora che, seduta, registra una serie di attività in programma a penna su un’agenda. Non sono uno di quelli che sbirciano, neh. Però leggo che il giorno prima, per due volte, una la mattina e una il pomeriggio, ha avuto qualcosa a che fare con Giulio Coniglio, il celebre roditore antropomorfo disegnato da Nicoletta Costa. Mi chiedo perché uno debba scrivere proprio così, Giulio Coniglio, su un’agenda come se si trattasse di un doppio appuntamento da marcare e ricordare. Quale sarà il vero significato? Una comunicazione in codice? Deve essere un segnale, non c’è dubbio.

Poco dopo tutti fuori, almeno fino qui siamo arrivati. Ci sono alcune stazioni in cui la coincidenza non è prevista. I convogli che vanno in una direzione partendo da lì non sono tenuti ad aspettare obbligatoriamente gli altri convogli in arrivo dalla direttrice opposta. Cioè, se il treno è in orario, i passeggeri riescono a prendere quello che gli consente di proseguire. Ma i ritardi sono frequenti, non è una novità, e in quel caso è lecito prendersela con il sistema che istituzionalizza questi disguidi a scapito degli utenti. E in un periodo come questo, in cui la gente è esasperata e si lancia sotto le saracinesche per non perdere l’ultimo metrò, dove magari ci fosse una ressa analoga per un film di Truffaut, secondo me è meglio muoversi con lauto anticipo, una procedura che io adopero normalmente perché con i mezzi pubblici non si può mai sapere. Per questo mi stupisco poi dell’insoddisfazione verso il servizio ricevuto, il linciaggio morale e fisico di autisti, macchinisti, controllori e personale vario. Si chiama sciopero. Serve per comunicare un malcontento. Siete avvertiti. Se avete un appuntamento all’ora x, agite di conseguenza con tutte le misure precauzionali prevedendo tutto quello che vi può succedere.

E accade anche che il tono metallico degli annunci dall’altoparlante rimandi da una parte all’altra della stazione. Bisogna tirar su zaini, ventiquattrore e in alcuni casi trolley e risalire le scale, mobili e immobili, e spostarsi ad almeno cinque binari di distanza. Che è anche questa una metafora perché se il convoglio definitivo ti ha atteso ti viene da ringraziare chi ha avuto la testardaggine di farlo nella vita e nei tuoi confronti, anche se magari prima non ti voleva sposare perché non c’era un nascituro di mezzo o perché vivi in un mondo tutto tuo, fatto di personaggi inventati per la letteratura infantile e prendi appuntamenti con amici immaginari. Perché poi l’esperienza fa crescere. Tutti e senza distinzione.

3 pensieri su “station to station

  1. E poi c’é chi dice che fare il pendolare é noioso. Ne cogli di cose in un’occhiata. E se fai figli per farti sposare poi ti devi annotare di leggergli il coniglio Giulio, magari mentre tiri un trolley cercando di ricordare se Tuffaut ha mai fatto film sugli scioperi e confondi la lotta di classe con quella per comprare l’iPhone 5. Io ho solo fimenticato il libro a casa e comprando all’edicola della stazione un Faulker qualunque mi sono sentita rammentare che se abbiamo voluto la paritá é giusto che lavoriamo, l’importante é che facciamo pure i lavori domestici. Mi presti Giulio Coniglio?

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