perso nella traduzione

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In effetti un incipit così metterebbe in difficoltà anche il più motivato dei sostenitori, spegnerebbe ogni entusiasmo a chiunque interessato ad andare fino in fondo. D’altronde si deve iniziare da lì, non ci sono scorciatoie soprattutto per i neofiti che per la prima volta si accingono a tentare il concorso a posti e cattedre, per titoli ed esami, finalizzato al reclutamento del personale docente nelle scuole dell’infanzia, primaria, secondaria di I e II grado. Neofiti nel senso che hanno tutte le carte in regola, almeno alla voce formazione e studi del curriculum, ma per una storia o per l’altra non hanno mai affrontato quel percorso professionale perché magari avrebbero voluto farlo dopo la laurea ma hanno fatto altro e hanno pensato che forse non sarebbe stato serio prepararsi per una selezione così importante solo nei ritagli di tempo del proprio lavoro. Poi per anni e anni di concorsi non ce ne sono stati più e nel frattempo la condizione di chi opera nella scuola italiana è diventata un caso unico al mondo occidentale, laddove la carenza degli investimenti ha causato tutto quello che sappiamo. Che poi al di là della retribuzione e dell’ambiente stesso di lavoro colpisce più che altro la considerazione con cui sono tenuti dall’opinione pubblica in genere. Gli unici professionisti che, chissà perché, sono considerati di serie B rispetto a qualunque altro operatore specializzato. Poi è successo che molti che potevano fare i maestri elementari o i prof e che non l’hanno fatto mai perché nel frattempo hanno fatto altro in aziende private hanno perso il lavoro o sono passati da un lavoro precario a un altro o, in molti casi, a nessun altro. E così l’idea di entrare nella scuola, malgrado la ressa all’ingresso di docenti più titolati e con anni di supplenze sul groppone, è sembrata un’opportunità. Questo concorso, quello la cui iscrizione scade oggi alle 14.00, probabilmente l’ultima.

Ma non è questo il punto. Il problema sta tutto in quell’incipit, e mi riferisco alle prime quattro-pagine-quattro del pdf che l’utente, che poi è l’aspirante partecipante al concorso, è tenuto a scaricarsi dai siti istituzionali, il documento che contiene la comunicazione che il concorso è stato istituito e tutte le indicazioni del caso. Le prime quattro pagine sono un elenco di visto-vista-visti e poi bla bla bla, e lo so che il problema è tutto di chi non sa che questo tipo di ordinanze iniziano così, con questa pappardella. E uno dovrebbe mettersi a leggere tutto perché magari non è del settore e pensa che in quelle quattro pagine di pdf ci siano informazioni fondamentali per cose come la domanda che dovrà compilare, la procedura che dovrà seguire, le certificazioni che dovrà allegare. No, niente di tutto questo. E non è un problema, in fondo, nel senso che poi arrivi al termine di quelle quattro pagine di visto-vista-visti e bla bla bla e ti accorgi che no, non sono queste le informazioni che cercavi. Il testo del bando comincia subito dopo.

Così l’utente, l’aspirante docente che probabilmente resterà aspirante a vita perché nel frattempo ha anche provato una simulazione del test di selezione con esiti a dir poco vergognosi, a quel punto fa un ragionamento. Perché in anni di lavoro in aziende private, in cui si può dire di tutto ma non che quello che ti chiedono di fare non sia messo nero su bianco, riconosce di non aver mai avuto nessun problema di comprensione del testo. Faccio un esempio. Entri in un’azienda che si occupa di informatica e dove tutti parlano mezzo inglese. Oppure in un’agenzia di marketing dove l’acronimo regna sovrano. E niente, basta trovare il codice per decrittografare le comunicazioni e il gioco è fatto. E già invece ci sono settori in cui ormai la presenza di traduttori e interpreti, che non fanno certo opera di volontariato per rendere comprensibili i tecnicismi e interpretarli in nostra vece, sono all’ordine del giorno – anzi al loro stesso ordine professionale, perdonate il gioco di parole – e mi riferisco a figure come notai, avvocati, commercialisti, i pochi depositari di un linguaggio che nel tempo si è evoluto in una realtà parallela se non divergente dalla nostra e in uso presso una vera e propria enclave linguistica che ormai vive e lotta contro di noi. E niente, forse un giorno avremo bisogno anche di consulenze di questo tipo per avere ben chiaro che cosa deve fare uno che, un bel giorno, vuole dare una svolta alla propria vita e iscriversi a un concorso pubblico, visto non si sa bene cosa.

10 pensieri su “perso nella traduzione

  1. Caro Plus, io vengo dal baratro del concorso pubblico. Mi ha prostrata per tutto il 2011 e la terminologia lesilativo-amministrativa che mi sono sciroppata mi ha causato dolori gastrici che ancora hanno ripercussioni, anche nervose. Iscriversi non è nulla. Aspetta di entrare nei meandri del dopo-iscrizione.

  2. Figurati, nella Pubblica Amministrazione è tutto un “nelle more… ad ogni buon fine… fatto salvo… tutto ciò premesso (previe pagine e pagine di paroloni che ti fanno dimenticare il nocciolo della questione)”. Il top l’ho forse raggiunto leggendo “rapporto sinallagmatico”.

  3. Il “pubblichese” più difficile è quello tedesco. Sembra strano ma è così.
    E’ la cosa più vicina all’italiano che io conosca.

  4. an

    caro Plus
    nei numeri strabilianti di questo concorso, usciti oggi, si legge l’autobiografia della nazione negli ultimi 15 anni. Qualche giorno fa dicevo alla mia compagna che la stima iniziale del ministero di 160.000 partecipanti non mi convinceva per nulla, perché non teneva nel minimo conto i tanti, come te e come me, che avrebbero tentato questa carta pur avendo già un lavoro più o meno stabile nel fantasmagorico “privato”.
    C’è tutta una storia personale e collettiva in questi numeri di oggi. Quella dei tanti che, pur avendone magari i requisiti, non avevano partecipato all’ultimo “concorsone” del 1999 perché avevano al tempo individuato altre opportunità di realizzazione e di crescita professionale. Che dire delle magnifiche sorti progressive che si aprivano davanti a noi negli ultimi anni del secolo scorso… avremmo forse voluto piegare il nostro avvenire al grigiore di un impiego statale triste e sempre uguale a sé stesso?

    Quando avevo scelto storia come corso di laurea, tanti anni fa, non mi ero posto il problema di cosa avrei fatto un domani. Consideravo l’insegnamento una possibilità, ma certo non la più convincente. Qualche anno trascorso in via Balbi, a Genova, mi aveva fatto passare ogni velleità, se mai l’avevo avuta, di carriera universitaria.
    Nel 1999, anno dell’ultimo concorsone, ero appena stato assunto da una piccola tv privata ligure. Avevo un futuro davanti, e volevo tenermelo ben stretto. Un paio d’anni dopo ero a Milano, città dove vivo tutt’ora. Oggi ho un contratto a tempo indeterminato in una tv nazionale, seppur non di “prima fascia”. Non sono un precario. Non sono disperato.
    Ma ho fatto domanda per il concorso.

    E nello stupore davanti ai numeri di oggi (come da articolo odierno del corriere) mi pare di poter leggere quanto sia sfocata la percezione del paese da parte di chi avrebbe il compito e il dovere di raccontarlo.

    Questi 321.000 aspiranti “statali” (record mondiale per un concorso) non saranno forse anche quelli che, in questi ultimi anni, hanno provato a costruirsi un futuro con le stucchevoli parole d’ordine con cui ci hanno ammorbato in questi ultimi 15 anni, flessibilità, responsabilità, disponibilità, etc etc. E poi si sono ritrovati a vivere ogni giorno lo svilimento, la rigidità, la miseria di un mercato del lavoro in cui il “lavoro” non conta più nulla?

    Quei tanti che a quaranta, quarantacinque anni (in un paese del primo mondo), vedono vanificata ogni aspettativa di un pur modesto benessere piccolo borghese, senza neppure aver mai vissuto la rassicurante liturgia fantozziana del cartellino dalle 9 alle 18?
    Lo chiedo ai soloni del liberismo, ai corifei della “meritocrazia”: questi 321.000 non sono anche una vostra sconfitta?

    Magari, invece, siamo tutti noi a essere dei falliti. Non “ce l’abbiamo fatta” e quindi proviamo a rifugiarci nel caldo abbraccio dello stato-mamma.
    Però, però… ho letto poco fa che ieri è morto Ezio Trussoni, caporedattore del TGR della Lombardia, un uomo perbene con cui ho avuto l’onore e il piacere di lavorare, sia pur solo per un brevissimo periodo. In una lettera aperta, scritta poco prima della fine dei suoi giorni, Trussoni ha ripercorso i punti salienti della sua vita professionale e non solo. E’ uno scritto toccante, da cui traspare l’amore e la soddisfazione che ha tratto dal proprio lavoro. Chi fosse interessato può leggerla qui:

    http://andreariscassi.wordpress.com/2012/11/07/ciaoezio-la-lettera-testamento-di-ezio-trussoni-alla-redazione/

    Mi permetto di aggiungere solo un appunto, una brevissima nota che spero non appaia stonata o poco riguardosa, nei confronti di un uomo per cui ho nutrito grandissima stima. Ezio è stato parte di un mondo in cui esistevano possibilità che, per chi è arrivato solo qualche anno dopo, sono semplicemente impensabili. In quel mondo, in quel pianeta lontano, esistevano concorsi per programmisti-registi in Rai. Anzi, la Rai aveva bisogno di programmisti-registi.
    Ezio, tra le tante altre cose, era un campione della “cucina”, quella trama di tante notizie non da “prima pagina” che sono l’ossatura di un qualsiasi notiziario. Non era uno Spielberg, un Tarantino o, più banalmente un Freccero o un Gori. Era un “uomo di macchina” e ne andava orgoglioso.
    Chi è vissuto in quegli anni ha avuto l’opportunità di lavorare bene come “uomo di macchina”. Ha reso un servizio al proprio paese ricavandone, nel contempo, gratificazioni e un buono stipendio.

    Oggi non c’è più spazio per questo genere di persone e di professionisti. Puoi essere un genio – forse – e arricchirti oppure puoi fare il concorso 2012 per il personale docente nella scuola.

    Scusa per l’ignobile lunghezza del commento, mi sono fatto un po’ prendere la mano…;)

  5. Grazie per il tuo commento che va a nobilitare questo spazio, che come puoi immaginare è un ricettacolo di pour parler o poco più. Mi ritrovo in tutte le tue riflessioni, soprattutto perché il motivo che mi ha spinto a fare parte della carica dei 320 mila è analogo è alla base c’è proprio questa sorta di fallimento sociale che, per certi aspetti, mi sembra però un preludio a qualcosa di più amaro. Di certo non sono un genio, mettiamola così 🙂 p.s. in via Balbi c’ero anch’io

  6. an

    lo so, lo so che c’eri anche tu, a Balbi:-) Ti leggo da un bel po’, tra l’altro incuriosito e assai divertito da quelle che mi sembrano quasi due esistenze parallele. Anzi, secondo me, almeno di vista, ci conosciamo pure, credo che a Genova in quegli anni si siano frequentati gli stessi posti. Curiosità: hai mai suonato, con uno dei tuoi vari gruppi, al circolo Arci dei Giustiniani, nei primi 90? Ora mi fermo, che qui si sta prendendo una deriva da socialcosi..:-)

  7. Certo, i Giustiniani, come no, più di una volta. Ma ho sentito che è stato chiuso o sbaglio? E se non ricordo male, nello stesso stabile c’era, qualche piano più su, una sala prove. Che tempi, quelli dei veicoli nei ’90.

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