altrimenti?

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Ora che la genitorialità inizia ad acquisire una connotazione più complessa, il ruolo da addetto al pannello di controllo sta lasciando il posto a quello di co-pilota, anzi di istruttore di scuola guida, su una di quelle macchine con tutto doppio in cui si inizia a esortare all’accelerazione per liberare l’incrocio ma si sta sempre pronti con i comandi per frenare la corsa ed evitare il peggio, mi viene da guardare mia figlia per tutta la sua altezza ed esclamare diamine, allora è vero che a un certo punto gli esseri umani con i quali siamo legati dallo stesso sangue ascoltano sempre meno. Fino a quando metteranno il volume dell’autoradio a palla per coprire le voci di entrambi, e ho le prove che talvolta finisce così. E la metafora che ho usato non è per nulla fuori luogo, perché la prima volta che ho pensato a me come padre è stata proprio al posto di guida.

Mi sono trovato una volta al volante di una Dune Buggy cabrio. Sì, proprio una come quelle di Bud Spencer e Terence Hill, ma non ricordo se era gialla con la capottina rossa o viceversa, il modello il cui furto li aveva fatti così arrabbiare, perché era notte e a dirla tutta non ci ho nemmeno fatto caso. Stavo riportando a casa un mezzo da rally sulle dune attraversando una città, un veicolo che definire inguidabile è fargli un complimento, con la marce talmente corte che per arrivare ai cinquanta all’ora occorreva schiacciare a tavoletta ma poi era meglio desistere per via del baccano. Il proprietario dell’automobile sedeva al mio fianco ubriaco perso, nemmeno l’aria fresca della notte estiva – che a causa dell’assenza del parabrezza quasi impediva il respiro sparata tutta in faccia – riusciva a indurlo a un po’ di dignità. Qualche minuto prima mi aveva fermato implorante, mentre rientravo dopo una dura serata di lavoro, parandosi davanti alla mia di auto e chiedendomi se potevo riaccompagnarlo. Era stato fermato dalla pattuglia poco più avanti che lo aveva sottoposto al test, per la cui abbondanza di positività quasi gli agenti gli avevano stracciato la patente davanti agli occhi. Non aveva scelta: o lasciare l’auto lì, o farsi aiutare dal primo che passa. Ho acconsentito, pur sapendo che non avrei potuto sottrarmi allo stesso controllo di Polizia e rischiando lo stesso destino. Andò bene, non so come, così consegnai le chiavi della Panda alla mia ragazza e mi misi al volante di quell’altro catorcio.

Quel figlio di papà, perché solo uno scavezzacollo viziato avrebbe potuto convincere i genitori a farsi comprare un’auto così, si accasciò sul sedile di fianco riuscendo a malapena a ultimare il passaggio di consegne sul modo di mettere in moto la Dune Buggy. Ma nemmeno il rumore della marmitta e l’attenzione che stavo attirando percorrendo le vie del centro mi fece desistere da quel gesto di solidarietà. Il ragazzo era un po’ più giovane di me, io avevo già superato la fase del superuomo e mi stavo affrancando in tutta fretta dalla schiavitù dello sembrare adolescente sempre e comunque. Così, guidando, mi veniva da dargli i consigli che si danno a uno che ha rischiato di essere trattenuto per ubriachezza molesta, o peggio di schiantarsi contro un lampione con quel trabiccolo. E pensavo come sarebbe stato, se fossi diventato padre di un tipo così, metterlo in riga, convincerlo a ubbidire, usare i ricatti e il castigo e pure la forza per ottenere qualunque cosa.

Alla fine gli parcheggiai persino l’auto sotto casa, ma non ero riuscito a dirgli nulla, e se lo avessi fatto non avrebbe capito un parola, dal suo stato limitrofo al coma etilico. La mia ragazza, che mi aveva seguito fin lì, mi disse che non stonavo affatto su quella che sembrava la macchina di Paperino, ed era una sensazione che stavo provando anche io. Tutta quell’aria in faccia, tutto quel sentirsi indifferente. Mi sentivo ripulito dalla testa ai piedi di qualcosa che avevo prima e che non faceva più parte di me. Qualche settimana dopo poi ci siamo incontrati di nuovo, per caso. Camminava a fianco di suo padre, che con i pantaloni gialli che mettono gli uomini in riviera sembrava poco più che il fratello maggiore. Anche solo dirgli che in fondo, quella sera, era stato fortunato, sarebbe stato superfluo. E poi, magari, non si ricordava nemmeno più.

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