le regioni rosse da mettere a fuoco

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Era la prima volta che facevo un viaggio lungo in macchina con l’aria condizionata. Lei no, lei c’era abituata. D’altronde l’auto era quella di suo papà e non era certo una poco avvezza al lusso, o per lo meno ad agi come quello. La tecnologia un po’ migliora il modo di vivere, e tra guidare nella canicola di agosto in autostrada con i finestrini aperti e fare lo stesso al fresco in un abitacolo non c’è stato il tempo di logorarsi troppo per scendere a compromessi oppure no. Ma mi è stato sufficiente fermarmi un secondo a stirare la schiena oltre il casello autostradale per prendere coscienza dell’inferno a cui avevamo rischiato di sottoporci. Già una volta avevamo perso il treno per Bologna. Noi eravamo sul binario in attesa a chiacchierare, l’Intercity si era fermato, alcuni erano scesi e altri saliti ma noi non ce ne eravamo nemmeno accorti e il treno era ripartito lasciandoci lì. Abbiamo chiesto a un ferroviere di passaggio che ci ha confermato il nostro timore. Avevamo perso l’ultimo treno diretto e siamo stati costretti a prendere locali e regionali infiniti. Il nostro destino sarebbe stato negli spostamenti su gomma, altro che rotaia.

Quella volta invece dovevamo alloggiare da un amico della persona da cui ci eravamo autoinvitati, i soggiorni a mutuo scrocco erano un classico delle vacanze low cost. Avremmo dormito in una specie di agriturismo per turisti nordeuropei, quei posti così inospitali e forzosamente austeri che piacciono solo a loro. Era una cascina sull’appennino gestita da un ragazzo del posto che si era messo con una olandese, una studentessa ora trentenne che si era spostata da quelle parti anni prima per un corso di ceramica, poi si erano conosciuti e così aveva deciso di fermarsi. Quei tipi che si vedevano una volta, con le salopette a quadrettini, le Birkenstock e gli occhialini tondi sotto i capelli corti, sia lui che lei. Lei che era un contatto linguistico e un fenotipo utile con le terre settentrionali da cui proveniva la maggior parte degli ospiti. Facevano una vita quasi ascetica, vegetariani e coltivatori del minimo necessario al sostentamento proprio e dei clienti. La cena infatti fu a dir poco frugale, ma tutti i commensali sembravano in forma e quasi contenti del sacrificio, parlando con loro ho notato che solo noi italiani ci abbuffiamo la sera per coricarci con cibi pesatissimi sullo stomaco, che non fa bene.

C’era solo una stanza libera con un pagliericcio senza lenzuola e ci siamo arrangiati, giusto un telo da mare sotto ma con il caldo che faceva non avremmo sopportato altro e poi l’alloggio era gratis e per solo una notte. Avevamo lasciato gli scuri aperti per via del buio apocalittico che circonda la campagna di notte e a cui nessuno è più abituato, solo che così secondo lei c’era il rischio di favorire l’ingresso di pipistrelli in camera. Nemmeno a farlo apposta, saranno state le tre o le quattro del mattino, non so, lei mi aveva svegliato perché c’era un’ombra sospetta a forma di v proprio sul soffitto sopra le nostre teste. Faceva così caldo che non mi veniva in mente nemmeno un modo intelligente per risolvere la situazione. Ma ho pensato che, accendendo la luce, il volatile notturno si sarebbe spaventato e, a furia di svolazzare sbattendo contro le pareti, avrebbe infine imbroccato l’uscita giusta. Un’opzione che lei mi bocciò dapprima su tutti i fronti, non pensava di sopravvivere se il pipistrello, come racconta una nota leggenda metropolitana, le si fosse infilato tra i capelli. Ma io non avevo alternative, non avremmo potuto riaddormentarci in quelle condizioni, quindi la pregai di mettersi il telo da mare intorno al capo così da verificare l’efficacia del mio piano. Ricordo di aver acceso la luce e di aver sentito il suo grido. Ma sul soffitto non c’era nulla se non una macchia a forma di pipistrello che, non so per quale legge di rifrazione, con il buio aveva assunto contorni tridimensionali. Io avevo una mia teoria, tra l’altro, a proposito di macchie sul muro. E cioè che un po’ incarnano le nostre paure e proiettiamo in esse le cose che non vorremmo vedere. Da bambino vedevo macchie di umidità che sembravano ragni, banditi con il cappello, alieni. C’è stato un momento in cui era in voga giocare con il bicchiere e le lettere sul tavolo per fare le sedute spiritiche, e io ogni sera, prima di addormentarmi, vedevo materializzarsi sulla parete a fianco del mio letto la faccia di Mozart perché era il personaggio che cercavamo di evocare, non chiedetemi il perché. Scorgevo un viso rosso e immobile, ma forse era la macchia che resta fissa nel nostro sguardo quando, anche per un istante, osserviamo una luce accesa come l’abat-jour sul comodino, prima di spegnerla. Comunque, la notte del pipistrello l’urlo aveva sventato il pericolo e aveva però svegliato i cosiddetti tenutari, che si erano precipitati a controllare che problemi potessero avere due come noi. E forse avevamo svegliato anche gli altri turisti.

La mattina successiva il tempo era ancora caldissimo ma il cielo sembrava nuvoloso, tutti facevano il tifo a colazione per un temporale estivo. La giornata prevedeva la compagnia dell’amico che ci aveva accompagnato il pomeriggio prima all’agriturismo, lui poi se ne era tornato a casa. Era domenica, e per il pranzo aveva pensato di portarci, anzi, di farsi portare con l’auto e l’aria condizionata a una celebrazione partigiana lì a pochi chilometri. Si doveva salire di qualche tornante più in alto. C’era un museo che raccoglieva reperti e testimonianze della Resistenza che, su quelle vette e dentro a quelle valli, aveva svolto un ruolo importante all’interno della storia di quel secolo che si apprestava a concludersi. I vecchi partigiani raccontavano le gesta e rispondevano alle domande.

Fuori dal museo gli organizzatori avevano allestito uno stand in cui alcuni volontari preparavano piadine, tigelle e altre amenità locali, di cui approfittammo considerando soprattutto l’economicità di quel pranzo. A fianco c’era un palchetto su cui si alternavano discorsi a musica. Salì un gruppetto di giovanissimi che, chitarre alla mano, inanellò una serie di cover dei CCCP tra cui l’immancabile, visto il contesto, “Spara Juri”. Un ex partigiano, seduto a fianco a me, notò a voce alta che loro, le scarpe Adidas, mica ce le avevano quando combattevano la guerra civile per affrancarci dai nemici dentro e fuori. Ascoltando il punk filosovietico, il nostro amico si rammaricava dell’assenza della sua ex, si erano lasciati da poco e quella formula a tre, io lei e lui, una doppia coppia mancata, aveva qualche impatto sulla dinamica delle conversazioni.

Era un ragazzo che conoscevo da poco. Aveva incontrato la proprietaria dell’auto full optional aria condizionata inclusa in una cittadina del Belgio, dove si trovavano entrambi per quegli scambi tra universitari dove si va a far baldoria lontano da casa. Lui era così senza soldi che era giorni che si nutriva solo di biscotti, una confezione destinata altrimenti a scadere che aveva rinvenuto nella stanza che occupava. Lei così lo invitava a cena spesso, gli aveva forse anche prestato qualcosa ma non ne sono sicuro, di certo lui si sentiva in debito anche se in quel modo irriverente in cui comunque uno si sente di aver già espiato.

C’era anche il legame di sponda che avevano mantenuto con la cittadina del Belgio in cui avevano soggiornato. Lo zio di lei era un professore universitario e aveva le mani in pasta in questo traffico di cervelli accademici, un tipo davvero originale che una volta si era pure prestato ad aiutarmi nel trasportare un frigo che avevamo trovato nella spazzatura, un pezzo da collezione di design retro, fin quasi su in casa mia. Addirittura, tempo dopo, lo zio docente aveva fatto venire in Italia una ragazza di Bruxelles. Aveva convinto la sorella di lei – sempre la tipa dell’aria condizionata – ad affittarle il suo bilocale ammobiliato, tanto non ci viveva quasi mai.

Questa ragazza belga aveva ottenuto così un appartamento tutto per sé a un prezzo stracciato. Lì vicino alla casa che occupava aveva quindi scoperto la gelateria, che poi è una delle cremerie più note della zona, e ogni giorno, andando in facoltà, si faceva fuori un cono con un gusto solo, ogni volta differente, per provarli tutti. Dopo qualche settimana con un ritmo così aveva messo su qualche chilo, ma non si vedeva più di tanto, era alta e anche piuttosto carina. Una volta in un locale in cui avevamo trascorso tutti insieme una serata, per levarsi di torno un tizio che la tampinava gli aveva detto che io ero il suo fidanzato e mi aveva anche messo un po’ in imbarazzo.

Della ragazza belga ne ho sentito parlare tempo dopo, quando ho chiamato al cellulare un amico che rispondendo mi ha pregato di mettere giù subito, si trovava a Bruxelles e si sa che nelle chiamate internazionali paga il traffico anche chi le riceve. Comunque prima di interrompere la conversazione mi ha fatto salutare da lei, che era lì al suo fianco, entrambi seduti a un tavolino di un bistrot, che combinazione. La coppia dell’agriturismo non l’ho mai più vista. L’amico che ci aveva invitato laggiù l’ho invece incontrato un anno dopo, ero capitato dalle sue parti e anche se la storia con la ragazza dell’aria condizionata era finita, ed era lei il nostro debole tratto di unione, avevo pensato di chiamarlo lo stesso. Mi serviva infatti sapere dove poter mangiare le piadine più buone della cittadina in cui viveva, una cosa che si fa spesso quando sei in un luogo e hai bisogno delle informazioni giuste da qualcuno che è del posto. Gli ha fatto piacere avere mie notizie, mi ha spiegato come arrivare al chiosco nel parcheggio dello stadio, di fare attenzione perché ce n’erano due ai due lati e uno era molto meglio dell’altro. Poi mi ha raggiunto lì, qualche minuto più tardi.

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