niente da perdere nemmeno se pareggiano

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Quella stessa domenica mio padre decide di portarmi alla stadio. Nessuno in famiglia è interessato particolarmente al calcio, tanto meno alla squadra della cittadina in cui viviamo che milita nel campionato di serie C. Ma qualche giorno dopo devo farmi ricoverare per un’operazione di routine, quindi anche quello serve da svago. Non credo nemmeno si tratti di una partita importante, un match chiave per il primo posto o uno spareggio per evitare la retrocessione. Non è nemmeno un incontro con qualche squadra tradizionalmente ostile per motivi campanilistici, perché la partita che ci apprestiamo a seguire è contro la Pro Vercelli. Di questo me ne accorgo dai canti degli ultras locali. Pro Vercelli, Pro Vercelli, vaf-fan-culo, questo è l’inno di battaglia dei supporters, una manciata di esseri senza speranza, penso, se non hanno altro da fare che mettere tutta la loro passione e dare sfogo all’aggressività per l’amore di undici giocatori di provincia.

In realtà uno di loro, anzi il numero uno, viene dal vivaio di una delle più blasonate squadre di serie A. Ha qualche anno più di me ed è già tra i pali con la responsabilità di non far entrare nessuna palla e di contribuire a portare a casa il punteggio pieno di una competizione da campionato. Ho visto la sua foto sulle pagine della cronaca sportiva locale, quell’accozzaglia di articoli per i quali i quotidiani sguinzagliano su campi in terra battuta i tirocinanti per mettere insieme qualche informazione che sarà letta dai ventidue delle squadre in campo e qualche parente annoiato, il lunedì successivo. Ho visto la sua voto in bianco e nero e l’ho osservata perché un mio amico dice che mi assomiglia. Qualche anno dopo lo vedrò difendere la porta in una sfida scudetto in serie A, in coppa dei campioni, poi addirittura in nazionale e, al termine della sua carriera sportiva, in molti dei talk show sulle reti locali e nazionali come opinionista. Un declino che, forse, l’assenza dalle luci della ribalta televisive avrebbe reso meno indecoroso.

La partita prende subito una piega favorevole, i nostri giocano in casa e il fuoriclasse tra i pali salva la squadra in più di un’occasione. Ma io mi rendo conto, ogni minuto che passa, che quello sport non fa al caso mio. La gradinata per la quale abbiamo i biglietti omaggio è di una scomodità vergognosa. Non ci sono sedili, come dice il nome stesso non siamo in tribuna. La pietra è fredda e dopo un po’ il fastidio inizia a farsi sentire insopportabile, tanto più che le occasioni per saltare in piedi per azioni clamorose si fanno sempre più rade. Senza contare poi che davanti a me e a mio padre non c’è nessuno, lo zoccolo duro dei tifosi occupa un settore più laterale. Oltre a loro gli spettatori saranno qualche decina. Di conseguenza nessuna scusa per alzarsi, far finta di infervorarsi un po’ o esultare per qualcosa.

Se avessi saputo che gli spalti erano così inospitali avrei chiesto a mio papà di portare un paio di cuscini, magari gli stessi che avevamo comprato l’estate prima all’Arena di Verona. Da qualche anno i miei genitori ci portavano in vacanza sul Lago di Garda. Questa comprendeva la visione di un’opera alla stagione lirica estiva. Era encomiabile l’impegno dei miei genitori, che cercavano di stimolare in noi la passione per i classici dell’opera. A dirla tutta io mi annoiavo a morte. Stare fermi e seduti in quell’anfiteatro romano ad assistere a uno spettacolo di cui non si capiva una parola per ore era oltre i limiti della sopportazione. Convincevo sempre mio padre ad acquistare i cuscini dai venditori che passavano in mezzo alle gradinate. Chissà quanto costavano e quanto spendevano i miei per alleviare almeno parzialmente quella specie di dolore da decubito. Ma forse il problema è più ampio considerando che, quando mio padre mi portava a teatro, quindi con sedili comodi e al calduccio, mi addormentavo all’istante. Russavo pure, e lui mi svegliava scuotendomi con il dovuto disprezzo. Diciamo pure che uno non si rende conto di quanto costi avere una famiglia finché non mette su la propria. La vacanza sul Lago di Garda, giusto per fare un esempio, si concludeva sempre con qualche giorno a Venezia. Un albergo per 6 persone a Venezia, in agosto. E io che volevo sempre mangiare la pizza, quindi a pranzo e a cena ristorante per 6, a Venezia, in agosto. Per non parlare delle scocciature che davo a mio papà quando, nel bel mezzo dell’Aida o del Trovatore, mi scappava la pipì. Mio padre mi accompagnava in cima all’Arena e io la facevo contro un muro e non capivo perché mio padre mi lasciasse fare la pipì lì perché avvertivo che il liquido poi scendeva lungo le gradinate, lievemente inclinate, e chissà, prima o poi avrebbe lambito qualche spettatore.

Invece allo stadio purtroppo quella domenica non mi scappa, così non ho nemmeno una scusa per chiedere a mio papà di andare in bagno o di accompagnarmi via. Quando la partita finisce con la vittoria dei nostri, rimaniamo a goderci lo spettacolo dei giocatori che vengono a prendersi gli applausi degli ultras. Ne approfitto per ricordare a mio padre che qualche estate prima la nostra squadra ha scelto come luogo di ritiro pre-campionato il paese dove abbiamo la casa sull’appennino e che li abbiamo visti fare ginnastica nel prato dietro la nostra cascina.

Per tornare a casa prendiamo l’autobus, come all’andata. Ci sono un gruppo di ragazzini con le bandiere biancoblu, uno di loro mi guarda e mi chiede se sono io il portiere della squadra. Io gli dico di no, e penso che se fossi davvero il campione in erba che la grande squadra di serie A ha prestato alla nostra di serie C non mi muoverei certo in autobus, tanto meno dopo un successo pieno come quello della partita appena terminata.

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