chi fermerà la musica, l’aria diventa elettrica

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Vi siete mai chiesti cosa fanno i tre o quattro ragazzi, chitarre e synth e batteria alla mano, quando per la prima volta decidono di incontrarsi in un luogo insonorizzato per suonare insieme? Un gruppo si decide a tavolino quando a uno o due del nucleo originario gli viene in mente che fare una band è la risposta. È la domanda che non è ben chiara. Cioè dove scatta il passaggio per cui le cose non è più abbastanza farsele da solo ma occorre trovare compagnia. È un po’ come quando decidi che quella deve essere la tua ragazza perché ha i capelli così e il seno cosà e in quel periodo anche se non c’è la scinitlla ci si può accontentare, anche perché i parametri comunque sono quelli corretti e intanto cominciamo con il frequentarci, l’amore verrà da sé. Ben altra cosa è il colpo di fulmine travolgente, quello ti investe che poi non ne puoi fare a meno e non mangi e hai lo spleen che manda all’aria tutto il resto dei piani, la tua band compresa. Già, perché poi raramente i rapporti sentimentali continuativi e i gruppi musicali possono essere conciliati, ma questa è un’altra storia. Quella cosa lì che è un po’ come il primo amore funziona che si è in quattro adolescenti e non sembra ci sia altro da fare che mettersi insieme a suonare. Punto e basta. Quando sei più grande e disincantato sulla mitologia che gira intorno alle affinità elettive i gruppi li fai con gli amici degli amici che ti hanno detto che cercano il tale strumentista oppure, in tempi più recenti, con quel grande mare aperto che è il web in cui è a portata di mano il traffico di mogli dai paesi più poveri, figurati qualche musicista deluso dalle luci spente della ribalta che cerca il finto anonimato nei social network per rockettari. Perché poi arrivi già abbastanza esperto e disilluso sull’approccio da tenere proprio come agli appuntamenti combinati con le ragazze, quelli in cui sai come si fa a baciarsi e le tecniche per palpare o per procurare piacere come hai già esercitato precedentemente o hai visto fare nei documentari, chiamiamoli così. Allo stesso modo con quelli che hai contattato per metter su la band ti guardi pronto a parlare quel linguaggio che sai a memoria da solo, la lezione che hai ripetuto a casa ennemila volte sul dischi dei tuoi gruppi preferiti ma poi quando c’è da produrre qualcosa di tuo come si fa, se il tuo è il frutto di un lavoro a più mani? Per questo la convenzione più diffusa è iniziare con le cover, come il primo bacio con la lingua che dai è tutta tecnica e poca passione. Si decide al telefono o via e-mail un pezzo che piace a tutti, ciascuno si prepara in solitario proprio come si fa con le proprie parti del corpo per vedere se nel momento giusto sono ancora reattive, quindi qualcuno batte quattro – raramente è un pezzo dispari a rompere il ghiaccio – e già dopo qualche minuto, se non se più un ragazzino, l’esito è bello che servito. Ti accorgi subito se ci sono le basi per un rapporto duraturo o se è meglio finirla subito. L’equivalente del solo sesso non c’è, al massimo in certi stili da suonare solo di pancia nei posti in cui si suda e tutti si fanno canne dall’inizio alla fine. È dato per scontato che l’idillio non esiste, ci sono tutta una serie di compromessi che però prescindono dalla corretta percezione dei generi musicali. L’indicazione o i generi e gruppi di riferimento la si dà sempre, e sta negli altri che acconsentono a non bluffare in eccesso perché poi ti sfido a provare due o tre volte alla settimana per due ore roba che proprio ti fa schifo e non c’è verso a cambiare l’indole con il tuo approccio da salvatore del mondo e, in questo caso, della musica vera che è quella che intendi tu. Ci sono però dei parametri al di sotto dei quali capisci che le persone che hai scelto sono cool oppure no. Se fai rap e ti trovi uno che fa il gesto delle corna con la mano, tanto per fare un esempio. Quello è una distorsione del modo di gesticolare degli afroamericani che le parodie del genere hanno portato fino alla sintesi per caratteristi da rete ammiraglia televisiva come Gigi Proietti, che l’abbiamo visto tutti scimmiottare l’hip hop con il cappellino alla Jovanotti. Oppure quelli che pensano che per fare house sia sufficiente cadenzare note con il synth a distanze di semitoni che poi tutto sembra un eterno remix di “19” di Paul Hardcastle, con la drum machine da break dance sostituita con l’un-tz un-tz del caso. Chi si ricorda poi del moto dissacrante verso il genere più distruttivo di tutti, quel punk che in Italia ha preso piede con le lamette e le spille da balia che nemmeno a carnevale, mentre alla radio passavano parodie come “Pus” di Andrea Mingardi. Per questo poi alla fine c’è sempre il capo orchestra, che nel rock e i suoi derivati ha sicuramente un job title più sexy e adatto all’ambiente, che fa tutto da sé e sa imporsi. Arriva in sala prove e dice giustamente a tutti cosa devono fare, le parti che si amalgamano alla perfezione perché sono già tutte incise nella sua testa. Fino a quando poi scopri che tanto vale sfruttare le conoscenze informatiche e i programmi multitraccia per lavorare in proprio. Usare il te stesso polistrumentista che tanto con gli strumenti finti è facile alla fine fare tutto. Molto meglio così che attendere la fine di un solo di chitarra che non arriva mai, rincorrere cassa e rullante in costante accelerazione, bassi che seguono scolasticamente l’armonia con sfoggio di cose come lo slap. Ecco, sono giunto alla conclusione che il sistema c’è, ed è quello di pagarsi turnisti e scrivere per filo e per segno le parti, ma lo so, i più dicono che è come andare a puttane.

2 pensieri su “chi fermerà la musica, l’aria diventa elettrica

  1. E mi spiace non poter paragonare i primi approcci amorosi con la prima bend perché la seconda esperienza mi manca. Ma se ho avuto i primi approcci amorosi con uno che stava creando una band, vale? Perché magari dopo il primo bacio a me ha dato la prima schitarrata ad (con) altri (anche se suonava la tromba ma poi sembra una battuta quindi meglio lasciare cosí)

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