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Dovreste apprezzare di più quelle città poco uniformi che ci abituano alla convivenza ravvicinata all’eccesso di diversi periodi e fasi architettoniche. Certo, capita di trovarsi di fronte a vere e proprie atrocità, ma certe armonie le possiamo cogliere anche noi che non siamo del mestiere e non siamo nemmeno fotografi, pronti ad astrarre tutto ciò che può essere condensato in un’istantanea e quindi con il perenne obiettivo mentale di cogliere lo specifico impressionabile digitalmente. Una dote che invidio. Prendete per esempio  il punto di via Pisani a Milano dove c’è la sede della KPMG, risalendo la strada verso la Stazione Centrale stando sotto il porticato di fronte. Quel palazzo lì con sopra il grattacielo di Gio Ponti lungo una via che sembra Karl Marx Allee, be’ non esageriamo, con lo sfondo della facciata della stazione. Non è un bellissimo scorcio?

Ma poi passi di la mattina, noti il contrasto tra cemento, acciaio e cielo che fa tanto Défense e subito dopo ti cade l’occhio sui numerosi homeless che hanno passato la notte lì sotto, sulle saracinesche di esercizi che non esistono più ma che conservano qualche vestigia della loro precedente vita. I negozi, dico. Manifesti che promettono piatti ricercati e dentro solo calcinacci, nastro adesivo appallottolato, guanti da lavoro spaiati e macchiati di vernice. Davanti un’infilata di esponenti di una sotto-classe sociale che non arriva nemmeno a quelli che chiedono l’elemosina o suonano strumenti di dubbia intonazione in metropolitana. Dentro la stazione ci sono invece spiantati un po’ più dignitosi appisolati sulle sedie, in attesa perpetua di un treno che non partirà e non arriverà mai. Un ragazzo con una borsa con su scritto Senegal su sfondo dei colori del reggae si è addormentato con quella specie di corona del rosario che non so come si chiama in mano, e quando se ne accorge è troppo tardi ed è costretto a raccoglierla sotto la sedia della vicina.

I passeggeri con il biglietto regolamentare invece li riconosci perché sono pronti a scattare. Attesa, conferma binario, carrozza e numero di posto. Dai bar escono i profumi tipici della colazione all’italiana, i cornetti industriali e i cappucci con le dediche al cacao. Non è come all’estero che senti odore di pasti  più consistenti a ogni ora del giorno. Mio padre si è stupito di questo, l’unica volta in vita sua che – per un giorno solo – è stato all’estero. Sono fragranze di cibo che sembrano più sane, e per notarlo non serve essere esterofili a tutti i costi o andare agli antipodi del pianeta. Prendete la vicina Svizzera, anche solo i paesi che sono a pochi minuti dal confine. Se non considerate i fast food e gli avamposti della globalizzazione gastronomica o quel persistente olezzo di cipolla che ti rimane nei capelli in certe metropolitane delle grandi città europee, anche solo l’odore di una pizza, sentito alle nove del mattino, tradisce ingredienti più sani. Sembra tutto più amichevole. Certo. Basta pagare.

La Svizzera poi, con il suo essere un paese neutrale, un coacervo di cantoni con lingue diverse che non sai mai quale sia la sua vera natura, per noi rimane un mistero e, come tale, estremamente contraddittorio. Così vicina ma così lontana, con una moneta tutta sua, la sua moderazione proverbiale, la sua sobrietà che inizia dalla grafica della bandiera. Così fiscale e così paradiso degli evasori, a due passi da qui e sei già in territorio straniero dove tu italiano sei comunque uno del sud, di bassa statura, con l’accento napoletano. Fai una curva e cambia la segnaletica stradale, ci vuole una specie di lasciapassare per l’autostrada che in italiano suona come un cartone animato che fa ridere. Pensate al concetto stesso di frontalieri, che te li immagini arrampicati lungo un passo impervio a trasportare merce di contrabbando – cioccolatini e orologi di precisione in un senso, mozzarelle e criminalità organizzata nell’altro – al mercato nero. E poi pensi: ma di che razza sono? In Svizzera coesiste davvero di tutto, puoi vedere donne arabe incappucciate chiedere informazioni a un ragazzo palesemente orientale con le cuffiette e l’iPhone, mentre intorno esplode l’entusiasmo di una scolaresca di ragazze con la loro assurda moda di girare in canotta e collant. Tutto questo perché noi, come loro, come gli svizzeri intendo, siamo un po’ tutto. C’è solo da abituarsi, tanto all’estero – remoto o a due passi – si può tornare quando si vuole, a immaginare anche solo cosa stanno cucinando di così invitante a nostra insaputa.

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