lo studio due o il big, non ricordo

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Alla fine è venuto ad aspettarci in stazione Emanuele, riconoscibilissimo perché malgrado il freddo porco indossava solo il chiodo con sotto una di quelle magliette di gruppi rock di almeno una generazione prima della sua e la bottiglia di birra in mano. Michela gli si è gettata addosso nemmeno non si vedessero da anni e lui per un pelo non è riuscito a spostarsi per evitare tutto quell’entusiasmo inopportuno. D’altronde lei era abituata a essere corrisposta in modo approssimativo. Il suo partner precedente spacciava sostanze illegali leggere in casa, un bilocale caratteristico per l’arredamento da bar, con i tavolini e il bancone nell’ingresso, il videogioco non c’era stato e lo aveva sistemato in camera da letto. La provenienza di quella roba brandizzata con una nota marca di bevanda gassata americana, che nessuno vorrebbe in casa propria, non l’aveva mai giustificata a dovere, nessuno aveva mai sufficiente lucidità uscendo da lì per approfondire e tutto finiva in fame chimica.

Emanuele invece di vero nome faceva Emanuele Filiberto e il fatto di vivere a Torino la diceva lunga sulle simpatie anti-repubblicane dei genitori. Si comportava come un nobile che fa finta di essere uno del popolo e certe trovate poteva anche risparmiarsele, come accendersi le sigarette con le diecimila lire. Comunque dalla stazione ce ne siamo andati dopo qualche smanceria facile da minimizzare, almeno fuori. Ci siamo mossi a piedi perché il locale era lì a quattro passi. Il venerdì era la serata rock e durava fino al mattino dopo, io c’ero già stato ma un sabato e c’ero rimasto male perché suonavano solo house e c’era pieno di gente che prendeva pastiglie, tutti vestiti in modi assurdi che facevano versi di feeling palesemente artificiali. Prima che quel posto diventasse un supermercato, e dopo che era stato un cinema, era uno dei locali più divertenti mai visti e infatti c’è poco da dire, se ci siete mai stati è inutile dilungarsi sulla musica, sui buttafuori che al minimo accenno di pogo ti sbattevano in strada, sul tipo che ballava con un roditore vivo sulla spalla e cose del genere.

Quella notte io ero con l’amica di Michela che poi mi ha mollato sulla pista perché aveva incontrato un amico non ben definito con cui aveva avuto una storia sui campi da sci, altre piste in tutti i sensi. Ma all’alba ci siamo ritrovati sdraiati sul tappeto del salotto di un amico di Emanuele Filiberto in un palazzo che poteva tranquillamente essere una dimora dei Savoia ora degradata a piedaterre di giovani aristocratici decaduti e abbondantemente dediti ai passatempi psichedelici. Emanuele si è addormentato sfatto e Michela c’è rimasta male perché aveva coperto entrambi con il suo cappottone nero e voleva combinare qualcosa ma nemmeno lì lo ha dato a vedere e poi non dovevamo starci molto, alle sei e qualcosa c’era il primo treno che ci avrebbe riportati a casa. Ognuno aveva i suoi buoni motivi per non rivolgere la parola agli altri. Scazzo, alcol da smaltire, sonno. Durante il viaggio di ritorno ci ha sorpresi l’alba, ma nemmeno quella ha costituito un argomento di discussione. Nemmeno i saluti, bacio sulla guancia, ci si vede alla prossima.

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