a silvia

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L’amore l’aveva spedita distante fino a servire ai tavoli di una trattoria in una frazione di un comune di un paio di migliaia di anime, quel genere di lontananza dagli affetti dai quali è facile farsi strappare fragili sotto gli impulsi della volontà di abbandono di una solitudine alle spalle, non sapendo quella che ci aspetta davanti. Un genere di distanza che l’aveva persino indotta a suggerire alle sorelle, come regalo comune di Natale per la madre con qualche problema di salute, il Telesalvalavita Beghelli, al telefono e pure con un fare distratto. Un modo tutt’altro che costruttivo di soffiare sul fuoco dell’autostima senile. Di una mamma, poi. Un vero e proprio colpo di testa a cui non avreste mai creduto se aveste assistito come me a quella che sembrava una litigata definitiva, in macchina, con quello che poi le ha chiesto di seguirla così lontano. Vedevo entrambe le teste spostarsi avanti e indietro dal parabrezza come ad annuire per poi negare di nuovo e i sì e i no si sentivano chiaramente perché non si affrontano discussioni con i finestrini abbassati e l’auto parcheggiata in piazzetta. Lei per spiegare meglio le sue ragioni giochicchiava con le dita allargando il buco sul rivestimento del tettuccio che per scherzare gli dicevamo che sembrava uno strappo causato da una tacco femminile. Non c’era stato però nessun sviluppo e nemmeno alcuna decisione era stata presa perché dalla parte del guidatore si era avvicinata nel frattempo un’amica di lui che non aveva capito la tragedia di coppia che si stava consumando, d’altronde non lo vedeva dal giorno della consegna delle tesi e lui non se l’era sentita di liquidare l’incontro con la scusa che non era il momento di interrompere quel che stava accadendo. Nemmeno a farlo apposta, dalla parte del passeggero dove sedeva lei, che poi avrebbe deciso di seguirlo ai confini del mondo conosciuto a cinquanta chilometri, pronta ad accettare anche uno svilente impiego come cameriera, si era avvicinato quel senza dimora fuori di testa che non era difficile trovarselo la mattina sdraiato sui suoi pochi averi nel proprio portone. C’era qualcuno che probabilmente non lo chiudeva bene proprio per dargli la possibilità di trovare un rifugio per la notte. Aveva la faccia più rugosa mai vista, era impressionante,  e trovarselo a pochi centimetri poteva dare fastidio, tanto che lei non sapeva più da che parte voltarsi. Quella che poteva essere una ex del suo ragazzo di là o il matto del quartiere di qua. Io comunque, quando si è avvicinata al tavolo della trattoria a cui sedevo con mio padre quel giorno in cui l’avevo accompagnato al paesello non mi ricordo per cosa, pur sorpreso di vederla lì trafficare con la penna, il bloc notes a quadretti di prima elementare delle ordinazioni e il menu scritto in corsivo dal cuoco su un foglio unto, ho fatto di finta di nulla soprattutto perché mio padre, che usava pranzare lì tutte le volte che trascorreva le giornate a curare l’orto, sembrava avere una discreta confidenza. Non ho fatto a meno di pensare a quando abbiamo salito insieme, non solo io e lei ma eravamo un nutrito gruppetto di ragazzini in vacanza nello stesso posto, quel limitare di gioventù sul quale i poeti un tempo trascuravano carte sudate e cura di sé. Eravamo a ridosso di una casa per farci fagocitare dall’ombra del sole di luglio del primo pomeriggio e c’era tutto un gioco di tredicenni di chi piace a chi, mentre sull’altro lato della piazzetta sotto il portico della cappelletta in disuso c’erano quelli più grandi, in mezzo una ragazza che suonava la chitarra e cantava piuttosto bene Sienteme di Alan Sorrenti. Di qui, dalla nostra parte, invece, mi sembrava soltanto male assortita la coppia, lei che si era messa con un coetaneo che però era ancora incredibilmente bambino mentre lei era già sviluppata, come si dice di fronte a un seno prorompente. Comunque lei, al tavolo, ha notato che ho indugiato ma era solo perché non mi andava di prendere il menu a prezzo fisso, primo e secondo a pranzo li mangio raramente.

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