bootleg

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L’unico ad accorgersi che quello è il tema di “Summer on a solitary beach” è il parroco, viene sotto il palco improvvisato con un paio di pedane da cattedra per farmi sapere, appena distolgo lo sguardo dal mio synth monofonico, che Battiato piace anche a lui. Non posso certo deluderlo dicendogli che ho accennato quella melodia solo per attirare l’attenzione di qualcuno durante quella specie di sound check e che a tutti pensavo fuorché a lui, ma pazienza. Ci sono già molti dei partecipanti alla festa di fine anno dell’oratorio, nostri coetanei ma che sembrano appartenere a un altro pianeta sociale. Ci sono già anche quei due o tre amici che ci hanno invitato lì a suonare, si vedono anche un bel po’ di ragazze che poi quella è la cosa principale. Di certo tutti pensano che li faremo ballare, c’è l’equivoco di fondo che quelli che suonano devono per forza fare disco music e, dalla parte dei musicisti, che il pubblico è lì per ascoltare a prescindere. È presente anche qualche adulto, ci sono i catechisti e c’è mio padre che mi ha portato in macchina per via della strumentazione ed è rimasto lì, d’altronde abbiamo quindici anni ed è meglio controllare anche se in un ambiente così difficilmente ci si imbatte in abitudini trasgressive. Basta solo che a uno gli scappi “che sballo” come apprezzamento entusiasta su qualcosa che tutti corrono ai ripari. La serata comunque fila via liscia, in effetti c’è qualche pezzo ritmato su cui ci si può dimenare, liquidiamo il nostro acerbo repertorio in meno di un’ora e poi, tutti insieme, lasciamo la parola ai dischi. D’altronde abbiamo scelto di esibirci per puro diletto, mica volevamo guadagnare qualcosa. Finisce che noi cinque ce ne stiamo da parte e tutti gli altri attendono la mezzanotte insieme, la festa finisce poco dopo e noi smontiamo e torniamo a casa. La serata sarà memorabile, almeno per per me, solo perché rimarrà l’unico live della mia vita in cui ho cantato un pezzo, con un testo inventato sul momento e in un finto inglese.

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