tanto fumo e poco arrosto

Standard

Il cugino di Ale è il primo che conosco a dichiarare apertamente che consumare droghe leggere, benché pratica ludica che mantiene un’attrattiva senza confronti su giovani e meno giovani, è un canale fruttuoso di sostentamento della mala. Meglio farsi un bicchierino in più, che anche se ti distrugge il fegato alla fine sovvenzioni lo stato con il suo monopolio. Ma è una mosca bianca. Tutti gli altri non si fanno problemi, conoscono i tizi giusti che hanno sempre qualche stecca da vendere, mentre la materia prima – l’erba di cui parlano i testi delle canzoni reggae che alcuni hanno preso ad ascoltare – non è facile da recuperare. I canali che verranno solo dopo da alcuni paesi del Patto di Varsavia affacciati sull’Adriatico non sono ancora attivi, portarla da Amsterdam è un rischio che nessuno vuole correre, quelli che se la coltivano sul balcone o nella serra probabilmente devono ancora nascere.

Sul diario di Linus c’è chi mette persino gli asterischi a fianco della data, che non si capisce mai se stanno a indicare le volte in cui hanno fatto sesso con la tipa o la canna fumata. Si tratta di un rito collettivo con una sua liturgia che agli scettici fa sorridere, ma tanto dopo qualche tiro sorridono tutti indistintamente. Massimiliano non ha assolutamente manualità nell’arte del rollare, poi ha le dita sudate e quando è il momento di leccare la colla la cartina gli resta appiccicata alla lingua e fa cadere tutto. Chi ha il palmo bagnato poi gli rimangono attaccate le briciole quindi c’è sempre qualcuno che si mette pazientemente a grattare via i residui facendo il solletico.

Si fa la posta fuori dal bar ad aspettare Paolo che ci dia buone notizie. Il suo grossista gli lascia una chiave di riserva dell’A112 parcheggiata più avanti, Paolo entra, si prende quello che gli serve e gli lascia i soldi contati nel cassetto del cruscotto, in una forma di automatismo ante-litteram che se un giorno davvero sarà legale tutto questo sbattimento farà ridere. E la libertà con cui si consuma in giro va a periodi. Carmine tiene nascosto un cilum sotto un’agave al parco, mentre Piero usa la cintura di cuoio, ma per queste modalità di assunzione così evidenti è meglio appartarsi o starsene a casa. Dario ha una 126 con cui riesce a passare in stradine strette in cui nessuna volante potrebbe avventurarsi e così non si preoccupa di andare sempre nello stesso posto a cui ha dato pure un nome. Quelli squattrinati sanno dove quelli ricchi si vedono per stordirsi ben bene e fanno spesso ricognizioni per vedere se magari qualcuno ha perso qualcosa. Se vedi infatti gente di notte con la pila a bestemmiare controllando centimetro per centimetro per terra è di certo il dramma che si è consumato: qualcuno con le mani di ricotta si è lasciato scappare l’ultima caccola rimasta della sera e ciao.

E Piero, quello del cilum con la cintura, si è fatto beccare in casa le cartine lunghe da sua madre che, con una pazienza che non vi sto a dire, su ognuna gli ha scritto “sei uno stronzo”. Se si va a mangiare fuori poi qualcuno ne prepara una nel bagno della trattoria e, una volta pagato il conto, ci si mette fuori a condividere quell’ammazzacaffè comunitario. Invece nei lunghi viaggi in treno delle licenze a militare Renato rolla nei cessi della seconda classe poi accende e si fuma la prima metà mentre il suo commilitone e compagno di viaggio (che non sono io eh) lo aspetta fuori come se attendesse il suo turno per fare la pipì, quindi gli dà il cambio e fuma la parte rimanente.

Ci sono poi i sostenitori dei modi più fantasiosi di consumo: la mela, la bottiglia, il baffo, il carciofo. Un lessico tecnico che non ha eguali a partire anche dai componenti essenziali – la mutanda, il castello – e dal gergo con cui la sostanza viene chiamata a seconda della latitudine. Il più azzeccato che ho mai sentito è “citrone”. Il più imbarazzante è sicuramente “free joint bambulè”, che sembra uscito da un film di Verdone.

Terminologia a parte, le più belle comunque sono quelle in casa rilassati ascoltando per la prima volta un disco appena acquistato, con i genitori in vacanza e senza la preoccupazione che si riconosca l’odore. Francesca, per dire, ne percepisce la fragranza anche a distanza di giorni e si offende se sale in macchina e di fumo non c’è nemmeno l’ombra, e tu vai a spiegarle che ha sentito l’odore di quella di domenica scorsa.

I cani addestrati pure ma per ben altri scopi: sguinzagliati nei furgoni delle band in giro per l’Italia a suonare per due lire impazziscono da come i sedili ne sono impregnati. Qualcuno passa persino qualche guaio, come quello che ora è tutto preso dai grillisti che ha venduto ventimila lire di hashish a un carabiniere in borghese che gli si era presentato con una fascia sulla fronte con l’effigie della foglia di marijuana, ma quello è un caso limite di ingenua spavalderia che, giustamente, non poteva che andare a ingrossare le file dei cinquestelle. Qualcun altro invece riesce sempre a scamparla anche grazie a eccessi di prudenza che, comunque, alla lunga premiano. Si tratta pur di una pratica fuorilegge che arricchisce la mala, come diceva il cugino di Ale, e la legge – almeno fino ad oggi – non scherza proprio per un cazzo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.