bello il co-working ma non ci vivrei

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A Milano, che probabilmente è la città capofila in quanto a spremere le novità fino a quando l’eccesso non ce le rende ostiche (un elenco non completo comprende l’aperitivo rinforzato, il trasporto di cibo a domicilio in bicicletta, il concetto di all you can-qualcosa, i ristoranti finti-giapponesi, il pilates, lo street food, il car sharing, il giro-pizza e molto altro) – da un po’ di tempo a questa parte a ogni angolo di strada (in senso metaforico) c’è uno spazio per start-up e co-working. Ci sono anche realtà pioniere di questo genere di servizi che si stanno espandendo in tutta Italia e in tutta Europa con il loro modello che comunque è molto figo e avveniristico. Non è tanto la possibilità di usufruire di aree e strumenti che, altrimenti, comporterebbero investimenti inaccessibili alle nuove leve dell’economia. Il bello è l’ambiente a cui queste realtà danno vita.

Ne ho visitata una per lavoro qualche giorno fa e a chi viene dalle aziende tradizionali come le conosciamo noi che, comunque, siamo gente che non è impiegata all’anagrafe ma operiamo in settori dinamici e innovativi, danno l’impressione del parco giochi. L’età media delle persone che vi bazzicano potete immaginarla. La cosa paradossale è che al qualche centinaio di gente che occupa tavoloni e sale riunioni, cubicoli di vetro, spazi per convegni e aree ristoro con l’immancabile calcio balilla e i puff per svaccarsi nei momenti creativi, corrispondono altrettanti tentativi di impresa o poco meno. In apparenza nessuno è collega di nessuno o al massimo ne trovi due o tre che lavorano per lo stesso progetto. In realtà tutti sono colleghi di tutti in un gigantesco limbo del mercato che, anche se non darà i suoi frutti come speriamo, per lo meno trasmette la volontà di questa generazione senza speranza di ritagliarsi qualche speranza, inventandosi spazi propri in spazi presi a prestito e in affitto, dal momento che tutto il resto del mondo del lavoro è intasato da gente come me che a cinquant’anni fa ancora lavori degni di un neo-laureato e che – incrociamo le dita – non vede margini di miglioramento se non con una improbabile pensione intorno ai settantacinque. Sai come sarò creativo a settantacinque anni, ammesso di arrivarci vivo e in salute accettabile?

Nel piano inferiore di questo concentrato di talenti ho visto un paio di aule in cui si tengono corsi il cui contenuto, per me che vengo dall’economia del secolo scorso, è arabo. Ma i ragazzi che dentro ho notato destreggiarsi con i più svariati strumenti per fare progetti che poi non si concretizzeranno mai – almeno su questo pianeta – sembravano perfettamente a loro agio vestiti nel loro dress-code della precarietà che oggi non credo si chiami nemmeno più così. È un dato di fatto ormai, quindi una sicurezza, anche se non è la loro ma quella delle famiglie che gli pagano tutto questo. E non è un giudizio morale: sfido chiunque di voi a mandare allo sbaraglio del mondo della povertà i propri figli. Meglio stare pronti a tenerseli stretti a sé, questo lo dico per prepararmi meglio al destino.

La cosa da evitare per gli osservatori parziali che passano lì per caso, nel mio (di caso) per documentare la loro operosità finalizzata a dimostrare che l’impegno ce lo mettono e a far sentire in colpa me e quelli come me che abbiamo dato fondo senza ritegno alcuno agli ultimi spiccioli di presente, dicevo la cosa da evitare è osservarli alle prese con le stampanti 3D e il coding e la robotica e le community e il project management di tutto ciò e pensare che è tutto molto bello anche se non servirà a nulla, e scusate il pessimismo ma voglio fornirvi le mie previsioni. Su mille, uno diventerà il nuovo zuckercoso di qualcosa e beata lei/lui. Nove ci proveranno come quell’uno perché se lo possono permettere in qualche modo ma con scarsi risultati. A essere buoni, quaranta usciranno di lì bravissimi e pieni di voglia di spaccare che però verrà spenta nell’ambiente lavorativo in cui saranno impiegati, in mezzo a me e gente come me che avrà settantacinque anni e che, anziché sfogare gli ultimi pruriti in balera, sarà costretta ancora in ufficio e troverà superfluo tutto quell’entusiasmo scambiato per boria adolescenziale. Il resto farà tutt’altro, quello che per generalizzare definiamo consegnare cibo in bicicletta, cuocere cibo finto-giapponese e tutto il resto dei servizi che a Milano, anziché le cose serie, vanno comunque un casino.

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