nel giorno di Anna

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Ad Amsterdam la coda per la casa di Anna Frank era quella più lunga di tutte. Più di quella al museo di Van Gogh. Più di quella al museo dell’Heineken. Più di ogni fila per farsi una canna nei Coffee Shop e, presumo, persino per stazionare davanti all’ingresso delle case con vetrina nel quartiere a luci rosse. La coda per la casa di Anna Frank era quella più lunga di tutte per un problema organizzativo. Al Van Gogh Museum scegli giorno e ora e, quando sei lì davanti, al massimo ritardi l’ingresso di qualche minuto. L’abitazione dove rimasero nascosti per due anni Anna Frank e la sua famiglia, durante l’occupazione nazista dell’Olanda, fino a una manciata di anni fa non consentiva la prenotazione. Ora non so se le cose sono cambiate, ma lasciatemi finire la storia e poi ne parliamo.

Davanti all’ingresso della casa-museo di Amsterdam c’era un serpentone di gente che non vi sto a dire. Avevamo notato questa anomalia e non eravamo disposti a nessun compromesso in grado di farci perdere tempo. La vacanza è la vacanza. C’erano un mucchio di persone, tutti in fila ordinata a qualunque ora del giorno, ma ne valeva la pena? Mia figlia però, aveva boh forse dieci o undici anni, non voleva per nessun motivo rinunciare alla visita. Aveva studiato a scuola la storia. La nostra amica Laura, in vacanza con noi, aveva deciso così di accompagnarla la mattina presto. Ma molto presto. Si sono svegliate a un’ora anomala, per chi è in ferie. Hanno preso e cambiato un paio di autobus e alle sette del mattino erano già lì, con solo una ventina di persone davanti.

Un’anomalia per un museo all’estero, se ci pensate bene, dove tutti sono organizzati al meglio. Pensate alla Germania, a come hanno organizzato al millimetro lo sterminio della famiglia di Anna Frank e di tutti quelli come lei. Ad Amsterdam, invece, per entrare in uno spazio dedicato ad Anna Frank, sino a qualche anno fa la procedura non era molto diversa dai padiglioni dell’Expo a Milano, Italia, quando per vedere cosa si mangia in Giappone dovevi stare otto ore sotto il sole. Siamo strani, noi esseri umani. Siamo iconoclasti e usiamo l’effigie di Anna Frank per fare uno scherzo ai tifosi della squadra di calcio avversaria. Forse è giusto così. Forse è un bene che non ci sia nulla di sacro. Nulla che sia degno di rispetto. Nulla che possa essere risparmiato dalla nostra voglia di ridere delle cose o di stupire i nostri contatti su Facebook. Resta il problema di come spiegarlo a mia figlia, che alle sette del mattino a dieci o undici anni, non ricordo, era in fila per visitare la casa-museo di Anna Frank ad Amsterdam.

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