noi robot

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Le mutazioni genetiche che la tecnologia ci impone se ci pensate bene sono state difficili da prevedere fino a poco tempo fa. La vista in calo a causa dei display luminosi e dei caratteri sempre più minuscoli che siamo tenuti a leggere per lavorare, sopravvivere nell’attuale mondo iperconnesso e anche per divertirci un po’. Il calo del desiderio generato dall’impatto che la pornografia di massa e gratuita ha avuto sulle generazioni che hanno preceduto noi millennials. L’allungamento del collo causato dalla postura con cui usiamo consultare i nostri smartphone e quel modo di protrarlo nemmeno fossimo delle giraffe preoccupate di non farcela ai cambiamenti climatici. Per non parlare del monoauricolare bluetooth incorporato dentro al padiglione auricolare proprio come un’estensione protesica al nostro corpo.

Nessuno ha ancora verificato le potenziali conseguenze di questa modernissima branca dell’impiantologia, è ancora troppo presto. Ma il led lampeggiante verde che si scorge sopra al lobo di chi si è già sottoposto a tale innesto a noi che, malgrado la spinta innovazione in cui siamo cresciuti, restiamo tuttavia una generazione di passaggio, fa abbastanza impressione. Proprio non ci siamo abituati. A me, poi, vengono in mente i Kraftwerk, un gruppo musicale tedesco in auge nel secolo scorso con una coda di revival nei primi decenni di questo che volge al termine. Suonavano un genere chiamato elettronico e si atteggiavano a uomini macchine illudendo spesso gli spettatori dei loro spettacoli live e apparizioni in TV del punto in cui si potesse spingere il progresso dei tempi. Indossavano cravatte con luci colorate che esaltavano le loro movenze da robot. Cantavano anche le gesta di quel monto automatico. Oggi siamo ai primi stadi delle conseguenze della trasformazione di cui ci siamo resi protagonisti. Poco fa osservavo una persona con il led acceso impiantato nell’orecchio e mi sono chiesto se i Kraftwerk fossero ancora in attività che cosa potessero pensare.