nel dubbio alza una tacca

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Ho una collega che si mangia le parole, ha un volume di voce basso, la bocca piccola e una parlata tipica della Brianza con cui si esprime nascondendosi dietro a un monitor gigantesco. Cinque fattori che concorrono a non farmi capire quando si sta rivolgendo a me e, quando si rivolge a me, a non farmi capire un cazzo di quello che dice. Vivo questa situazione con un complesso di colpa perché so benissimo che potrei essere io ad avere problemi di udito. All’università facevo di tutto per mettermi in prima fila perché avevo l’ansia di non cogliere il senso delle lezioni se, ascoltando, non osservassi il labiale del professore mentre spiegava. Poi ho quel bordone di rumore rosa (eredità di anni di prove a tutto volume con un gruppo di punk industriale, insieme all’acufene) che di giorno si stempera nei suoni che mi circondano ma poi, nel buio e nel silenzio della notte, mi tiene compagnia come una radio non sintonizzata accesa senza soluzione di continuità. Per questo temo sempre che negli scambi di conversazione con la collega brianzola sia il mio sistema audio a non fare al meglio il suo dovere. Nel dubbio mi faccio ripetere tutto anche tre o quattro volte a costo di farci la figura del nonnetto anziano e sordo. Del resto, la madre della collega è mia coetanea, quindi secondo i suoi parametri rientro nella terza età a tutti gli effetti. La cosa però mi frustra non poco. Dite che sono già da apparecchio acustico?