non fare il prezioso

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Non passano nemmeno tre minuti dall’inizio del disco che Chrissie Hynde ha già mandato qualcuno a farsi fottere. Attenzione, però. “Precious” è la traccia uno del lato A dell’album d’esordio che qualunque gruppo al mondo vorrebbe comporre e mettere come brano iniziale per introdurre sé nel mondo dell’arte, ma non lo si può certo definire un biglietto da visita per i Pretenders. Intendo dire che, se vi piacciono le front-woman aggressive, con Chrissie Hynde è meglio non prenderci troppo gusto. L’esperienza insegna che la matrice dei Pretenders viri decisamente più sul pop-rock che sul punk-wave, e già alla fine di quel primo (comunque ottimo) 33 giri ci pervade la consapevolezza di non trovarci di fronte a una band di paladini della trasgressione. Ma qui ci limitiamo a parlare di “Precious”, emozioni da una botta e via, un pezzo con cui stupire i nostri amici quando le aspettative d’ascolto sono alte in termini di canzoni che spaccano, con ritmi veloci e da pogo.

Siamo alla fine degli anni 70 e a una personalità così forte e superiore come quella di Chrissie Hynde i limiti di un posto come Akron, Ohio, non possono che indurre una claustrofobia senza speranza. Mentre i concittadini Devo subiscono la provincia industrializzata tanto da mettere la paranoia dell’essere umano al centro della loro ispirazione, Chrissie Hynde non ci sta e scappa, appena è in grado, per raggiungere la culla della civiltà del momento e coronare, a Londra, il suo sogno di fare una rock band.

Agli abitanti della sua cittadina di provenienza decide però di dire addio con una canzone, un concentrato di chitarra graffiante, suoni elettrici, ritmo serrato, parole taglienti e cinismo. Ce li immaginiamo, così come ce li descrivono i Pretenders, il jet-set locale in passerella per le vie del centro, gli scorci più in vista, i bei vestiti e le storie di sesso più torbide consumate sul pavimento, tutti in una gara a chi è troppo prezioso rispetto allo scenario sullo sfondo. Una corsa che Chrissie Hynde vince, alla fine, con il suo vaffanculo nell’ultima strofa, preludio per la fuga verso un ambiente più adatto alle sue potenzialità da cui poi, non a caso, prenderà il volo per il successo.

La cosa paradossale è che, per essere un pezzo così movimentato ed esplosivo, il cantato di Chrissie Hynde sembra pensato per domare un ritmo incontenibile con un flusso tra il parlato e la melodia, accelerazioni e pause, e le sue varianti nel timbro a volte sexy e altre dileggianti. Complice il tempo di batteria con quel modo, in auge all’epoca, di contenere la velocità anziché assecondarla, come invece faranno poi i musicisti punk più preparati tecnicamente negli anni novanta. Un effetto confermato dai rapidi botta e risposta di basso e chitarra nelle strofe e da certi cliché rock di altri tempi: il brano che si svuota e lascia tamburi e basso a lanciare il climax finale, il solo di chitarra che riproduce la sirena di una macchina della polizia (senza doppler, però, ed è sempre un peccato), e il one-two-three-four iniziale dato con le bacchette, che permette di sincronizzare l’entusiasmo degli ascoltatori con il feeling della canzone. Fino a quel tenero “Fuck off” conclusivo, il passaggio per il quale la canzone è marchiata ancora oggi, siamo nel 2018, per i suoi contenuti espliciti sulle piattaforme digitali, roba che in confronto un qualsiasi brano trap verrebbe precluso ai minori per il resto della storia del genere umano.

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