gioia e resistenza

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[questo pezzo è uscito su Loudd.it]

Dalla gioia come forma di rivoluzione alla gioia come atto di resistenza. La morale ce la fanno degli inglesi, questa volta. Che smacco per noi piccoli italiani. Noi che la resistenza l’abbiamo inventata, oggi così presuntuosi da non voler accettare lezioni da nessuno. Noi che proprio ora, in pieno coma della ragione, abbiamo dato fondo alla follia scegliendo una classe dirigente miserabile come mai successo nella nostra storia.

Il paradosso è che siamo i primi a sfogare il prurito alle mani applaudendo la violenza di certi dischi così punk da lasciarci senza fiato. Non ci siamo ancora ripresi dal potere dirompente di una band come i Protomartyr da Detroit che già ci tocca tornare in piazza (in senso metaforico, che cosa avete capito, rimettete pure gli auricolari) a manifestare la disillusione con una nuova colonna sonora, ancora una volta in una lingua che non è la nostra e contro un sistema che non ci appartiene. Siamo al fianco degli americani contro Trump. Supportiamo lo sdegno degli inglesi contro chi ha voluto la Brexit. Tutto ciò ascoltando post-punk. In questo, siamo indubbiamente insuperabili.

E se non conoscessimo gli Idles probabilmente acquisteremmo “Joy as an Act of Resistance” in un impeto di idealismo, solo per la copertina. Visto e piaciuto, come si dice per gli oggetti di seconda mano. La foto trasmette l’idea della follia, l’ebbrezza della rissa, l’astrazione assoluta della rabbia. Il disco, per continuare la tradizione inaugurata con “Brutalism”, l’incredibile esordio della band di Bristol, poi però è il primo a prenderci a ceffoni per aver pensato una cosa così superficiale.

I due pezzi in uno di “Colossus” costituiscono le due facce della musica degli Idles: l’alienazione dark che ritroveremo nelle tracce successive lungo brani come “Never Fight a Man With a Perm” o “Love Song” e la brutalità sparata a ritmi inumani che caratterizza “Danny Nedelko” e il trittico centrale “Television”, “Great” – nell’insieme un blocco di cattiveria post-hardcore da cui è difficile riprendersi – completato da “Gram Rock”, canzone d’altri tempi, con un riff di chitarra tormentoso e dolce allo stesso tempo a caratterizzarne il ritornello.

Ci sono poi apparenti oasi in cui intavolare un dialogo con il gruppo inglese risulta più semplice e costruttivo. Ecco la scarna “June”, scandita dall’ossessiva regolarità dei battiti di cassa e timpano, “Cry To Me”, una veloce parodia del rock’n’roll più tradizionale, e soprattutto la travolgente “Samaritans”, pezzo in cui Joe Talbot alla voce alterna un semi-parlato dall’incedere biascicato e angosciante a un ritornello che, rispetto al resto dell’album, risulta persino orecchiabile. Se mi permettete di scegliere per voi, eleggo il crescendo finale di “Samaritans” a momento più suggestivo di tutto l’album. Da solo, è sufficiente a restituire la perfetta sintesi della bellezza di questo disco superlativo.

“Joy as an Act of Resistance” è un long playing maledettamente complesso e crudelmente completo perché è pregno di gioia a pressione, un sorta di fastidiosa scomodità compressa che, traccia dopo traccia, svela però il trucco per essere risolta e superata. Un sentimento costretto dai limiti della registrazione dentro uno strato di punk che si crepa agli urti del suono fino a spaccarsi e a esplodere, alla fine. Non osiamo pensare alla sua resa dal vivo con la distorsione senza speranza della chitarra, il basso che non dà tregua, la compattezza della batteria e la gente sotto il palco che poga.

Gli Idles suonano e cantano stremando il loro pubblico con una cupezza così ruvida da risultare unica, creando trame in grado di indurre al masochismo dell’ascolto e a lasciarci in balia della disperazione. Come per i Killing Joke nella loro forma più impietosa, dopo gli Idles c’è il rischio che non ci sia futuro e che occorra rifare tutto da capo.

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