mettersi in gioco

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Il fatto che ci sia gente di più di tredici anni che gioca ai videogame non finirà mai di stupirmi. D’altronde potreste dire la stessa cosa di quelli come me che, a quasi cinquantadue anni, si comprano i dischi dei Cure. L’essere scarso e imbranato a livelli incalcolabili con qualsiasi tipo di gioco elettronico sin dai tempi di Pong mi ha fortunatamente estromesso da qualunque potenziale passione per il gaming. Ma comunque, quando c’è stata l’esplosione delle console, ero fortunatamente già grande e interessato a ben altri generi – naturali e chimici – di diversivi dalla realtà precostituita. E non fatemi la paternale che generazioni come la mia, con la storia delle sostanze stupefacenti, hanno guastato questa bella società. In giro vedo persone con dispositivi portatili da centinaia di euro in mano utilizzati per scoppiare bolle colorate o simulare azioni in una versione digitale degli sport più massificati. Il fatto è che vedervi così grandi e grossi nelle foto della Milan Games Week mi mette un po’ di tristezza perché il messaggio che passate ai vostri figli è che l’infanzia dura per tutta la vita mentre loro, secondo me, vorrebbero avere modelli differenti e più solidi. Per lo stesso motivo sono convinto che mia figlia preferirebbe vedermi in pipa e giacca da camera ad ascoltare musica classica, anziché mettere “Just like heaven” a manetta e ballare mentre cucino e bevo birra per festeggiare il weekend.

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