raccontare la musica senza mettere nemmeno una canzone

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Ricordate quel celebre aforisma attribuito a Frank Zappa che ci ricorda che parlare di musica è come ballare di architettura o qualcosa del genere? A me è sempre sembrata una stronzata e mi auguro che un genio come Zappa si sia permesso una cosa simile solo perché in preda ai fumi dell’alcool o ai fumi e basta. Poi Facebook è subentrato al buon senso della gente e, da lì, con gli aforismi di cani e porci è iniziata l’era del vale tutto. Riconosciamo però che è vero che raccontare la musica senza la musica è una pratica altrettanto sconclusionata, soprattutto se la narrazione è televisiva, ha un titolo e un regista e viene confezionata in un programma trasmesso l’unica volta in cui ho un’oretta libera da trascorrere stravaccato sul divano con il potere del telecomando e con ben altre aspettative.

Ho assistito alla trasmissione di “Pink Floyd Behind The Wall” su Rai5 proprio ieri sera. Si tratta di un documentario sulla celebre band inglese realizzato nel 2011 in cui sono i membri stessi – a parte il compianto Richard Wright mancato nel 2008 – a raccontare parte della loro storia. Le origini del gruppo e tutta la fase con Syd Barrett sono approfondite nei minimi particolari, mentre dall’ingresso di Gilmour in poi il programma pigia sull’acceleratore e tocca solo alcuni aspetti del periodo di maggior successo dei Pink Floyd. Ma questo potrebbe essere un non-problema. Magari è stato pensato appositamente per presentare solo i dettagli delle loro origini.

L’aspetto paradossale è invece che, pur trattandosi di un documentario musicale, per tutta la durata del programma non si sente nemmeno una loro canzone. Nemmeno una nota di un pezzo se non un cenno del celebre riff iniziale di “Wish you were here” suonato dal vivo davanti alle telecamere. Per il resto niente.

La componente sonora è interamente occupata da musiche che richiamano alcuni pezzi dei Pink Floyd:  le parti di chitarra elettrica con il delay ricorrenti in “The Wall”, la coda blues in quattro quarti di “Money” con quel celebre ostinato di basso, le atmosfere psichedeliche dei primi album e altri fake, passatemi il termine. Cloni che rimandano ai successi dei Pink Floyd ma che non sono loro, come una borsa Addas o la sosia di Melania Trump che interpreta l’originale in un video di un cantante rap del momento. Avete mai fatto caso a certe musiche che si sentono nelle pubblicità e che sembrano canzoni di successo? Ecco, in “Pink Floyd Behind The Wall” è tutto così e fa venire il nervoso perché quando parlano di “The Dark Side of the Moon” ti aspetti “Breathe”, o a proposito degli esordi fremi nell’attesa del celebre inizio di “Arnold Layne”. Invece si arriva dopo più di un’ora ai titoli di coda e, pur con il pieno di belle e interessanti informazioni e tutto quanto, si resta a bocca asciutta.

Ho pensato allora che possa trattarsi di un problema di diritti. Usare “The great gig in the sky” o “Another brick in the wall” in un documentario non se lo può permettere nessuno, nemmeno i membri stessi dei Pink Floyd che parlano dei Pink Floyd. Mi chiedo però il senso di tutto ciò. Per i Pink Floyd ricorrere ai plagi controllati è fortemente riduttivo.

Un pensiero su “raccontare la musica senza mettere nemmeno una canzone

  1. Fra l’altro in alto a destra, sullo schermo, era scritto “Primavisione”, ma quel doc lo avevo già visto sulla Rai (ho avuto conferma da un collega d’ufficio, pure lui fan dei PF).

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