non lasciate che i capodanni futuri siano la somma dei capodanni passati

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Con gli occhiali da lettura e le cuffie avvolgenti ci sentiamo come i palombari sott’acqua, chiusi nel loro casco. Ed è proprio in questa confort zone che ho messo insieme due cose che erano strettamente connesse ancor prima che io me ne accorgessi. Ho dedicato qualche minuto a scorrere la mia bacheca su Facebook, il pomeriggio dello scorso 31 dicembre. Ho letto un ricordo di Lele che rammento anch’io vividamente: adolescenti avvolti in cappotti neri acquistati in un negozio di roba usata, gli anfibi, il 1980 e qualcosa, il walkman con le inconfondibili cuffie con le protezioni per le orecchie in spugna grigio scure, e soprattutto la didascalica “New Year’s Day”, ridondante per l’occasione ma non c’è molto da fare, i giovani hanno bisogno di emozioni poco complesse e pronte all’uso. La mattina di capodanno, cioè qualche giorno fa, alle nove stavo attraversando Milano in auto per riportare a casa mia figlia dopo il primo veglione della sua vita trascorso con gli amici. Ho ripercorso la stessa strada lungo la quale, la sera prima, l’avevo accompagnata, ma la luce del mattino mi ha permesso di notare, nell’assordante solitudine tipica del primo dell’anno fatta di carcasse di petardi e vestigia dell’ebbrezza altrui, l’angosciosa bellezza della modernità che in quel frangente culminava con la nuovissima skyline di City Life immersa in un’algida foschia pregna di polveri sottili e di altri rarefatti presagi per le sorti del pianeta in cui viviamo. Ho ripassato così parola per parola le mille raccomandazioni che le avevo fatto la sera precedente, poco prima che scendesse dall’auto, e il momento in cui mi ha fatto notare che, con quello che combinavo alla sua età, non ero certo la figura più indicata a fornire parametri di modelli di moralità. All’ultimo semaforo rosso, posto a un incrocio di un’arteria in cui non si vedevano automezzi in nessuna direzione ma solo una donna sola con il suo cane, mi sono convinto ad aprire il finestrino di un dito, uno spazio sufficiente a soffiare fuori una boccata di qualcosa che avevo dentro e che aveva quel maledetto sapore che ti resta quando hai tanto da preoccuparti di ciò che ti circonda ma, alla fine, punti sempre e solo dentro di te.

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