emofobia

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Se dovessi sentirmi male per strada spero proprio che accada con un medico nei paraggi e non uno come me che, nei casi di emergenza, se la fa sotto e va nel panico. Una reazione che poco si addice a un addetto al primo soccorso. Dopo aver ricoperto questo ruolo di responsabilità sulla carta nell’agenzia in cui ho lavorato sino all’estate scorsa, il destino ha voluto infatti che fossi riconfermato addetto al primo soccorso anche a scuola. Il problema è che mentre in ufficio, al massimo, ti viene uno svarione per certe stupidaggini che ti tocca sentire o leggere, con più di venti marmocchi in classe qualche probabilità in più che ci sia bisogno di intervenire può capitare. Il problema è che nessuno me lo ha chiesto, di candidarmi, ma la scuola è un po’ come a militare, in cui all’ultimo arrivato vengono riservate le cose più spiacevoli. Ricordo di essere svenuto quella volta in cui, in caserma, mi avevano messo in macelleria con tutto quel sangue e, allo stesso modo, sono certo che in caso di bisogno non saprò da dove iniziare e mi limiterò a comporre il 112. D’altronde al corso te lo dicono subito: meglio evitare di comportarsi da super eroi se non si è certi di fare la cosa giusta e io sicuramente non voglio acquisire sicurezza di me proprio ora.

Senza contare che il corso dura dodici ore, divise in tre incontri da quattro ciascuno, e dal momento che è organizzato dopo la normale attività scolastica, nel pomeriggio, tenere botta fino alle 18:30 senza addormentarsi nemmeno una volta è praticamente impossibile. I docenti non brillano per capacità di coinvolgimento, d’altronde la materia è quella che è, e sono loro i primi a trasferire l’approccio errato con cui l’iniziativa, di per sé encomiabile, è stata imposta per legge. La partecipazione al corso è finalizzata a divulgare competenze in grado di salvare situazioni pericolose, ma in questo modo evitare l’abbiocco è un’impresa più complicata della rianimazione cardiopolmonare. E per ovviare a questa difficoltà pratica, l’esperto ci ha consigliato di fare i massaggi sullo sterno a tempo di “Staying Alive”, un rimando che mi ha mandato in tilt. Dovendo esercitare 30 compressioni del torace ad un ritmo di 100-120 al minuto bisogna vedere se poi, davvero, abbiamo in testa il giusto BPM della celebre colonna sonora de “La febbre del sabato sera” oppure, nella società dei remix o anche solo perché non siamo capaci di andare a tempo, mettiamo a rischio la vita di sconosciuti con la nostra interpretazione del brano per qualche inutile retaggio delle numerose cover band di disco anni 70 che ripropongono i successi da ballo dei Bee Gees. Allora ho pensato che, per gli strattoni necessari a portare a termine la manovra di Heimlich, si possono usare gli stacchi di “Killing in the name of” dei Rage Against The Machine.

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