tiro diritto

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Il mestiere che per più di vent’anni mi ha dato da mangiare faccio fatica a spiegarlo, ancora oggi, a tutti quelli che mi chiedono che cosa facevo prima di diventare un insegnante-uomo di scuola primaria. A volte, anziché dire copywriter, mi verrebbe voglia di dire che ero un impiegato in un’agenzia di marketing digitale, ma poi anche il marketing digitale non è un concetto molto chiaro e nemmeno il marketing tout court. I lavori del web due punto zero si capiscono solo tra gli addetti ai lavori del web due punto zero e al resto del mondo sembra tutt’ora – giustamente – un mistero che esistano persone che mantengono una famiglia curando i profili Facebook conto terzi. Ma che lavoro sarà mai?

Il termine stesso copywriter si presta a storpiature divertenti quanto interessanti perché inconsapevolmente adeguate. Copriwater è quella più comune perché evocativa del fatto che per certi aspetti è un lavoro un po’ di merda. Copyrighter anche perché crea un link tra il fatto che un copywriter crea contenuti che poi nessuno dovrebbe copyarglieli, passatemi il gioco di parole. Il diritto d’autore, ai tempi della replicabilità dei dati e alla pervasività della loro diffusione però è un tema che dovrebbe essere rivisto completamente, perché è un po’ come utilizzare mezzi per lo smottamento del terreno in operazioni in mare. Non ci dovrebbe essere del tutto e nemmeno essere parte di un’economia che non ha ragione d’essere. Il digitale e l’analogico sono due ambienti completamente diversi, proprio come la terra e l’acqua. Complementari, costantemente limitrofi e con una parte in comune che cambia spesso fisionomia e linea di demarcazione, ma diversi. Uno solido e l’altro liquido, uno asciutto e l’altro bagnato. Non si tratta di proteggere qualcosa, di creare oasi o, peggio, riserve, ma di cambiare forma mentis. La produzione di contenuti digitali non è narrativa o saggistica, non è informazione, non è fotografia, non è arte, non è musica, non è cinema e nemmeno tv, non è giornalismo e non è politica. È tutte queste cose mescolate insieme e non ha ancora un nome. Possiamo chiamarla Internet, nel frattempo. E, se non ci piace, torniamo alle nostre musicassette, alle Moleskine, alle VHS, agli atelier, ai musei, alle emeroteche e alle biblioteche, e – credetemi – non è una critica alla rete. Provate a lasciare quello che non volete condividere fuori dal computer, sono sicuro che non ve lo ruberà nessuno.

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