dolore manifesto

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È stata mia figlia a farmi notare che una delle arterie che portano in centro città che stavamo percorrendo in auto è tempestata di cartelloni che pubblicizzano il messaggio della campagna contro l’eutanasia condotta da Pro Vita, una setta extra-cattolica locale. Così la volta successiva ho rallentato per osservarne meglio la creatività e capirne gli obiettivi. Il punto è che c’è una bella differenza tra morire e suicidarsi. Vittime di anoressia, bullismo o malattie irreversibili se decidono di togliersi la vita lo fanno di getto, non certo pianificando la timeline di una exit strategy ponderata. Chi lascia che intercorra del tempo tra il momento in cui sceglie di ammazzarsi o farsi sopprimere va ben oltre il gesto estremo della disperazione, l’impeto dell’atto fatale. Una fase di razionalizzazione del problema porterebbe infatti sicuramente a un cambio di rotta, frutto di una riflessione personale e dell’azione di quei congiunti a cui gli ideatori della campagna si appellano. In genere la si fa finita in pochi secondi, in modo da togliersi – oltre la vita – anche il tempo di ripensarci. I giornali sono pieni di questi colpi di testa, sicuramente sedimentati nelle intenzioni delle vittime ma mai frutto di una schedulazione nei tempi e nei modi. Morire di propria volontà è sicuramente un gesto folle, contrario persino a quei comportamenti messi in atto da chi distrugge se stesso, persona di cui è infinitamente innamorato. L’eutanasia comporta lungimiranza e passione e, paradossalmente, somiglia di più a un progetto di vita.

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