Siouxsie & The Banshees – Tinderbox

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

A metà anni 80 alcuni degli artisti new wave post-punk – insomma, la musica che piaceva a quelli che andavano in giro conciati come Robert Smith – mutarono pelle a seguito di una sorta di break-even point da cui nessuno è più tornato indietro. Le cose erano cambiate – e di molto – e, consapevoli di un mercato che virava altrove secondo le esigenze di sensibilità diverse, come gli animali braccati che si giocano il tutto per tutto si erano rifugiati nelle tane del dark più oscuro costruito paradossalmente su matrici più accessibili. Rivolgersi a più persone, con canzoni dalle tinte più fosche.

Pensate a “The Head on the Door” o “Kiss me kiss me kiss me” dei The Cure, a “Black Celebration” e “Music for the Masses” dei Depeche Mode o a “Night Time” e “Brighter Than A Thousand Suns” dei Killing Joke. Proprio queste tre band torneranno poi ridosso del decennio successivo con dei dischi che, degli anni 80, sonorizzeranno la cerimonia funebre: quel capolavoro che è “Disintegration”, il successo totale di “Violator” con un’improbabile (per un gruppo elettronico) chitarra protagonista, e l’industrial punk di “Extremities, Dirt & Various Repressed Emotions” con cui Jaz Coleman e soci fanno ciao ciao con la manina ai fan del gotico melenso, ancora vestiti di nero, l’eyeliner sbavato e dieci anni in più sul groppone.

In questo scenario, Siouxsie & The Banshees – la regina del dark accompagnata dal suo rinnovato entourage di creature della notte – non è stata da meno. Lasciando negli annali della storia della musica le sonorità vibranti, elettriche, sbrigative e psichedeliche alla base della sua personalissima produzione delle origini, quella diventata ispiratrice della quasi totalità delle songwriter alternative e depresse del duemila, Siouxsie si apre a una fase ai tempi fraintesa come transitoria e, a distanza di trent’anni, palesemente di maturità, che ha raccolto in un disco pressoché perfetto come “Tinderbox” il massimo del suo splendore.

La copertina di “Tinderbox” riproduce in rosso scuro la stessa forza distruttiva del tornado di “Stormbringer” dei Deep Purple che, a sua volta, era già stato visto su “Bitches Brew” di Miles Davis lungo uno dei rarissimi casi, nella musica, di foto da cover art già utilizzate in precedenza e, soprattutto, da artisti che non c’entrano un cazzo l’uno con l’altro, se non nella voglia di ridurre in polvere qualcosa. Nel caso di Siouxsie & The Banshees, si parla di città sepolte dall’impeto della natura proprio nel primo singolo tratto dall’album, brano che corrisponde con uno dei più grandi successi della band. “Cities in dust”, probabilmente ispirata da una visita a Pompei, è un dialogo con la civiltà sconfitta dalla natura, oltreché un grande successo commerciale.

“Tinderbox”, settimo album in studio della band, è anche il primo con il nuovo chitarrista – l’ex Clock DVA John Carruthers – che prende il posto occupato temporaneamente da Robert Smith in sostituzione dell’ingombrante John McGeoch. Le cose cambiano, e in meglio. Il riff di chitarra di “Candyman” – la prima cosa che esplode sul piatto mettendo il disco – non passa inosservato, statuario e solido a cavallo della discesa di toni del basso e dalla batteria prorompente, una base ritmica che contribuisce a rendere il secondo estratto dall’album uno dei momenti indimenticabili del dark di tutti i tempi. Per non parlare dell’apporto del nuovo musicista agli altri brani a partire dall’arpeggio di “The Sweetest Chill”, una formula che si ripete nella splendida “Cannon” e nella struggente ballad “92°”.

Ma i momenti di eccellenza non finiscono qui. “Party’s Fall” è una canzone perfetta per melodia e struttura. Il modo inimitabile in cui si alternano le parti ne fanno un vero gioiello e l’andamento ritmico è quello di un classico delle playlist da festa da ballo in costumi gotici, un brano che sino all’ultima nota, soprattutto con la sua tirata conclusiva, non finisce mai di stupire.

Ma la vera perla del disco è la traccia finale. La composta e articolata figura di batteria con cui “Land’s End” inizia, affiancata dalle note del basso e dagli interventi misurati di chitarra, creano i presupposti per una linea di voce superba, in grado di decidere i giochi fino all’accelerazione strumentale del cambio e oltre. Raddoppia il tempo, si moltiplicano le sensazioni. “Land’s End” si rivela uno dei brani più rappresentativi di Siouxsie & The Banshees poiché concentra il meglio della loro ispirazione: atmosfere cupe, complessità compositiva, alternanza di dinamiche, armonia sofisticata.

“Tinderbox” costituisce un momento unico della band e il ritratto più riuscito di un momento musicale che non tornerà più. Resta il rammarico per il singolo uscito successivamente all’album, quel “Song from the Edge of the World” pubblicato pochi mesi dopo che però non ne fa parte, se non nelle edizioni su cd postume. Sarebbe stato il modo più adatto per chiudere, su vinile, un’era pronta a disintegrarsi e digitalizzarsi ma ancora fragile nel suo aprirsi alle sonorità che, di lì a poco, trasformeranno le cose senza possibilità di ritorno.

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