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La cosa che mi piace di meno del mio lavoro è la valutazione, il motivo è che ne costituisce la componente più difficile. Vista da fuori sembra un gioco da ragazzi, soprattutto quando ci sono da correggere le verifiche oggettive: come nel pattinaggio, si attribuisce un punteggio a ogni passaggio oggetto della prova e, arrivati alla fine, si tirano le somme. L’esperienza da studente la fa sembrare persino uno strumento per esercitare il potere: dai giudizi e dai voti dipendono presente e futuro di un bambino e i docenti possono definire, in largo anticipo, il loro percorso scolastico. La questione in effetti è molto spinosa, a partire dalle valutazioni di chiusura ciclo che vanno a quantificare il valore degli obiettivi raggiunti dallo studente. Quest’anno insegno in una prima e il problema, che pensavo a questo stadio embrionale della scuola primaria potesse considerarsi rimandato, si è palesato invece ancora più controverso. La domanda che mi sono posto è se, nei primi mesi della vita scolastica di un bambino, sia necessario già restituire a lui (ma di più alla sua famiglia) dei feedback non positivi. Se da una parte una penalizzazione così acerba è in grado di far correre ai ripari nel caso di una difficoltà di apprendimento da affrontare, dall’altra può minare la relazione tra scuola e genitori, demotivare gli alunni, far nascere una diffidenza prematura nei confronti dei docenti. La risposta che mi sono dato è che gli ostacoli si possono superare con il confronto e il dialogo ma, in questa fase iniziale del percorso di studi, la scuola si deve porre come soggetto accogliente e, di partenza, limitarsi a una ponderazione sul livello dell’entusiasmo per la scuola dimostrato che, nei bambini di prima, merita sempre un punteggio pieno.

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