sacro

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Gli ospiti sorseggiano un ottimo caffè servito in un set di tazzine acquistato a Parigi dieci anni fa, un modello pensato per i francesi che rincorrono l’espresso con una pasta in mano acquistata a parte in una boulangerie di lusso fino nei bar della capitale gestiti dai più lungimiranti imprenditori della ristorazione italiana. Sono fatto così. Abbino le tazzine a piattini di un altro servizio perché usarle senza non è da tutti. Non sono un amante dei riti a tavola. Comunque sorseggiano il caffè poi si voltano verso il mobile del salotto che contiene l’impianto stereo circondato da una collezione di vinili invidiabile – ho la cucina a vista – ed è in quel momento che sentono di doverlo chiedere. «Che musica ascolti?».

Cala il silenzio. Il traffico fuori si ferma. La natura interrompe il suo ciclo. Mia moglie scambia qualche parola sottovoce con mia figlia, entrambe sanno che è una domanda sensibile alla quale non riesco mai a formulare una risposta convincente. Ogni volta si raccontano l’aneddoto dei genitori alla festa delle elementari che equivocarono i miei gusti indie per la musica degli indiani, quelli con gli zufoli che propongono riduzioni di pop stracciacoglioni su basi discutibili agli angoli delle strade delle città turistiche. Gli ospiti invece terminano l’ultimo goccio di caffè in piedi, osservano la mia collezione di vinili e chiedono «Che musica ascolti?».

Talvolta aggiungono particolari sul loro rapporto con i dischi. Quasi tutti gli ospiti posseggono ancora gli ellepì di quando facevano le superiori in scatole di cartone custodite in cantina. Quello, vorrei dirgli, non è collezionare vinili. Non è nemmeno amare la musica. Non è un cazzo, perché quella idea di musica è la stessa di un mobiletto che non serve più e che però non viene portato in discarica per pigrizia. Malgrado la digressione, la domanda resta ancora valida. «Che musica ascolti?».

Io non so mai da dove iniziare. Per semplificare comincio con i fondamentali: la new wave/post-punk, i Cure, i Joy Division, che comunque sono i nomi più alla portata di tutti. Mica posso citargli i Chemeleons, i The Sound o i Polyrock. Ma per non sembrare uno che si dà delle arie aggiungo nomi universalmente noti: David Bowie, i Talking Heads, per finire con i Genesis con Peter Gabriel. Una carrellata di nomi in grado di trasformare anche l’approccio più inclusivo di un interlocutore fino a poco prima sconosciuto che, bevuto il caffè, per scopi puramente commerciali cerca di condividere il suo mondo.

L’entusiasmo evapora dal suo volto perché è saltato totalmente il trait d’union. L’ospite, visibilmente deluso, risponde che no, lui ascolta funk e jazz, ed è per questo che ha chiuso i dischi in cantina, mi verrebbe da rispondergli. Non è musica che può averti preso perché non fa parte del tuo vissuto. Se fossi più giovane cercherei di salvare la situazione. Ora spero che l’ospite se ne vada, consapevole della mia superiorità.

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