Deeper – Auto Pain

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Giunta al secondo album, la band di Chicago mescola in un nervoso concept le ispirazioni de “Il mondo nuovo” di Huxley con la stessa matrice post-punk del primo disco, per un risultato convincente sotto tutti i punti di vista.

“Il mondo nuovo” è uno di quei romanzi di cui abbiamo aspettato per anni un adattamento per una serie Netflix o Amazon. La distopia è pane quotidiano per i binge-watcher, pensate al successo di trasposizioni di storie come “La svastica sul sole” o “Il racconto dell’ancella”. Ma mentre è prevista per metà luglio la prima puntata di “Brave New World” su SkyOne in UK, a noi che non abbiamo sottoscritto l’abbonamento tocca accontentarci dell’ispirazione che il più celebre libro di Huxley può dare alla musica. E così, dopo gli omaggi degli Iron Maiden e, dalle nostre parti, di “Fetus” di Battiato, è la volta dei Deeper, formazione di Chicago giunta al secondo album dal titolo “Auto-Pain”.

La linea del nuovo disco è molto coerente con l’album omonimo d’esordio, un nervosissimo e visionario post-punk reso con suoni elettrici e qualche incursione nei sintetizzatori e nei tappeti di tastiere. Sono le chitarre a suonare loop, frasi e riff con suoni puliti e sfuggenti.

Per usare i soliti paragoni con i padri della new wave, siamo dalle parti dei Gang of Four e dei Wire misto a un pizzico della geometria dei Talking Heads, con un timbro vocale che in alcuni passaggi ricorda quello di Robert Smith. Non lasciatevi però ingannare dalle similitudini, chi scrive di musica le sciorina un po’ per farsi capire ma, soprattutto, per tirarsela con la sua inutile cultura rock. Ogni band ha una storia sofferta a sé e merita di essere ascoltata. I Deeper, a cavallo tra i due dischi, hanno perso il chitarrista Mike Clawson. Il genere che suonano incarna perfettamente questo disagio e non c’è sostanza euforizzante più della loro arte, altro che la soma che Huxley spaccia nel suo best seller.

Il risultato è un disco ricco di spunti, uno di quei long playing in cui, a ogni canzone, si ha l’impressione di voltare pagina in una raccolta di racconti, più che in un romanzo. “Esoteric” e “Run” ci danno il benvenuto nel mondo dei Deeper, due brani da cui traspare la volontà di mettersi in mostra con tutte le stranezze di cui gli artisti sono capaci, qui però rilasciate con la giusta misura e un temperamento molto controllato.

Uno stile che però si spoglia di tutto questo lecito rigore già con il terzo brano, “This Heat”, una canzone che sembra uscita dalla b-side di un singolo tratto da “Three Imaginary Boys”. “Willing” è palesemente no-wave, mentre “Lake Song” vira il registro dell’album verso i toni dark. “Spray Pint” e “4U” risaltano per quel modo isterico di suonare la chitarra elettrica con brevi strappi ripetuti a loop, stile che piace molto ai seguaci del post-punk e fortemente di moda tra gli strumentisti a sei corde che non se la sentono di essere scambiati per dei rockettari qualsiasi.

Con “V.M.C” ci spostiamo al 1985 di “The Head On The Door” ed “Helena Flowers” passerà alla storia per la trovata di interrompere il brano a metà con un applauso da sala da concerto. Seguono la straordinaria “The Knife” e, per chiudere, l’ipnotica “Warm”.

Confermando il posizionamento dichiarato con il primo disco, i Deeper dimostrano di essere una band dalla forte personalità. “Auto-Pain” non ha sbavature, è divertente e intrigante allo stesso tempo. Serio e faceto, riflessivo e disordinato, non c’è dubbio che dentro a questo secondo disco ci sia della stoffa e che risulti frutto di un gruppo pronto a fare il salto di qualità verso qualcosa di ancora più convincente.

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