Nadine Shah – Kitchen Sink

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La pressione sociale e le aspettative sul ruolo della donna alimentano la connotazione di uno stereotipo femminile difficile da sradicare nell’opinione comune. Non a caso, la donna che non sa stare al proprio posto – siamo contemporanei di gente del calibro di Pillon, non dimentichiamocelo – si complica la vita, senza contare i casi in cui la vita le viene sottratta a suon di ceffoni del marito/compagno/fidanzato prima e dai ceffoni dei media (che parteggiano spesso per il marito/compagno/fidanzato) dopo. Anche se qui parliamo di musica, non si è mai fuori luogo ricordando che lo scorso anno, in Italia, e non su Marte, sono state uccise 95 donne dal partner o dall’ex, quasi una ogni tre giorni.

Spero di non essere andato fuori tema a proposito di “Kitchen Sink”, il nuovo long playing di Nadine Shah. Non si parla espressamente di femminicidio ma è un disco che depotenzia la prospettiva maschile e ne mette in discussione la leadership trattando temi che conosciamo bene ma da una prospettiva femminile e solo con la poesia. Il fatto è che, in una relazione, è proprio questo il punto di non ritorno, ciò che accende la follia omicida del’uomo.

“Kitchen Sink” offre la possibilità di riflettere su una società che pretende cose assurde. Le prime due che mi vengono in mente? La donna acquisisce il cognome di un uomo per diventarne proprietà o deve fare dei figli per raggiungere l’obiettivo per cui è stata progettata. Oggi la questione femminile è di gran lunga la più urgente. E il fatto che il potere, l’economia e la religione siano maschili è un problema, con l’aggravante che la conduzione del sistema lascia fortemente a desiderare e, nonostante ciò, non sembra sussistere abbastanza margine per un cambiamento.

Dare il più possibile spazio a una voce critica sullo stato delle cose potrebbe sembrare, a questo punto, un contentino per risolvere il mio senso di colpa di appartenere al genere maschile. Invece non è così, ve lo assicuro, e per dimostrarlo facciamo finta che questa recensione cominci da qui. L’attenzione che “Kitchen Sink” merita non c’entra nulla con una strategia di quote rosa. Il nuovo album di Nadine Shah è a dir poco straordinario, e ora vengo al punto.

C’è una imprescindibile e a tratti radicale coerenza di fondo nella discografia di Nadine Shah. Il suo stile è sempre raffinatissimo senza compromessi, un’impressione restituita da fattori che, giunta al quarto album, ormai possiamo considerare una costante della sua musica. Una vocalità originalissima grazie alla quale l’artista inglese sfrutta potenzialità tecniche di matrice jazz con un timbro di una gelida cupezza degna di Siouxsie. Parole taglienti come schegge di bombe compositive esplose in prossimità delle coscienze degli ascoltatori. Timbriche che plasmano il meglio del meglio della musica in un genere tutto suo, per confezionare gusci perfettamente plasmati intorno al suo songwriting.

Sono passati appena cinque anni da quando me ne sono innamorato, studiandola sul palcoscenico nel video di “Fool”, stretta nel suo post-punk a cantare il suo disprezzo verso un deludente essere umano tutto preso a comporre rime scopiazzando Nick Cave e Jack Kerouac. Tre da quando, invece, Nadine Shah spediva cartoline da destinazioni improbabili per trascorrere vacanze molto poco ordinarie. Paesi meno fortunati del nostro e del suo da cui scappano, rischiando la vita, persone meno fortunate di me e di voi, protagoniste di storie dal finale tristemente ingombrante.

Oggi Nadine Shah è una donna adulta in un man’s man’s world che non smette di dare importanza alla sua età e in cui si presume che, oltre la puericultura e il cucchiaio d’argento al servizio della famiglia, non ci siano vie alternative alla realizzazione individuale femminile. Non siamo molto cambiati dai tempi rappresentati dall’estetica vintage dell’artwork di “Kitchen Sink”, un rimando a un periodo in cui l’unica stanza dei bottoni a cui una donna poteva aspirare era quella stipata di elettrodomestici e robot da cucina.

“Kitchen Sink” è un compendio di storie, la sua e quelle di moltissime altre donne con esperienze differenti ma dalla stessa matrice sessista. Un album musicalmente ineccepibile e a tratti volutamente ostico, surreale e grottesco. Per dire, appena è partito il tema di “Club Cougar” con il sax e quella specie di tastierona/sintetizzatore all’unisono e il ritmo alla “Slave to Love” (per dare qualche coordinata di riferimento, siamo alla traccia numero uno) al primo ascolto ho pensato alla faccia che farebbe Nadine Shah se qualcuno, per scherzo, si cimentasse a sostituire quella melodia con una sezione di archi, trasformando la canzone in un brano un po’ sexy-pop-retro di una Lana Del Rey qualunque. L’intento respingente e melodrammatico, tanto quanto il testo, è perfettamente riuscito.

E nell’insieme “Kitchen Sink” riprende e completa la varietà di stili di “Holiday Destination” attraverso composizioni e arrangiamenti eterogenei e completamente al servizio dei testi ospitati: il ritmo spezzato di “Ladies For Babies (Goats For Love)”, pronto ad accendere l’elettricità nel ritornello, l’ostentata cadenza di “Buckfast”, i vuoti di “DillyDally” contrapposti alla suadente completezza ritmica di “Trad” (la traccia migliore dell’album), gli ammiccamenti blues della titletrack, i voli spinti dal vento alt-folk di “Kite”, l’ebbrezza dark di “Ukrainian Wine”, la pungente quanto scarna “Wasp Nest”, per finire con la sguaiata ironia di “Walk” e la conturbante “Prayer Mat”, perfetta nel suo compito di chiudere l’album.

Il fatto è che “Kitchen Sink” è un disco tortuoso dotato di una personalità di cui è difficile essere all’altezza e impossibile da spiegare con parole semplici. E, da uomo, parlare della musica di Nadine Shah può risultare un’impresa inaccessibile. La complessità delle cose che pensa, scrive e suona può mettere in soggezione, far paura e aprire una falla nella radicata consapevolezza del ruolo dominante. Ma, come assicura lei stessa, nell’album non c’è solo crudeltà. Seguendola sui social network si ha l’impressione che di persona sia meno intransigente delle sue canzoni o, per lo meno, conceda una seconda possibilità. E, se così è, ti prego Nadine, dimentica tutto quello che ho scritto qui.

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