non so se augurarmelo

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Li vedo ed è proprio come pensavo: mamma che piange per la commozione, papà che la segue un passo indietro con quella sua espressione che fa quando si sente un po’ fuori luogo, ma forse è solo provato da tutte quelle ore di volo che sicuramente avrà passato da sveglio a cercare di tenere a bada la tensione, leggendo o ascoltando musica. Ci abbracciamo comunque tutti e tre e siamo felici di poterci toccare di nuovo, poi gli faccio strada verso la fermata della linea che ci porterà a casa mia anche se non riusciamo a camminare stando affiancati, la calca è quella del Natale delle grandi città americane e noi siamo in tre con un grande e rumorosa valigia a rotelle da trainare e tante cose da dirci. E così seduti sulla metropolitana leggera, loro di fronte me, possiamo raccontarci tutto, quello che abbiamo fatto in tutti questi mesi. E vedo che mio padre si guarda intorno, a lui piace osservare le cose più comuni, le pubblicità nei display, i cappelli delle persone, i colori dei sedili, e paragonarli con tutti quelli che ha visto nei posti che conosce per dimostrare a se stesso le differenze. Allora gli chiedo come se lo immaginava, questo momento.

E mi racconta di un Natale di tanti anni prima, io ne avevo sette o otto, e avevamo trascorso la vigilia tutto il giorno in casa a giocare insieme con quei passatempi inventati, tipo cercare di colpire le palline da ping pong, colorate come palloni degli altri sport, stando sdraiati per terra a lanciarcele a vicenda, o le storie di Barbie e Ken che lui voleva sempre portarla alla mostra, e tutto si svolgeva nella città che avevamo immaginato nei vari ripiani a cubo dell’Expedit di camera mia, ognuno era un ambiente.

A cena ci aveva raggiunto Laura e tutti insieme avevamo guardato, io per la prima volta, The Blues Brothers, un film che era in programmazione anche alla tv ma che papà aveva preferito scaricare per poterlo seguire senza interruzioni pubblicitarie. E anche se non l’avevo mai visto, io ne avevo sentito già parlare, questo lo ricordo, perché c’era quella scena di Aretha Franklin che canta e balla con le pantofole rosa che avevo impersonato nello spettacolo dei bambini al campeggio l’estate precedente, cantando Freedom e ballando alzando le braccia sopra la testa come negli anni 60. E infine tutti a letto, io che non vedevo l’ora di addormentarmi per lasciare il posto a Babbo Natale che mi avrebbe portato i doni che avevo specificato nella letterina.

Così lui e la mamma si sono poi alzati quando ho preso sonno – avevo chiesto di poter dormire nel lettone con loro – e hanno allestito la sorpresa. I pacchi sotto l’albero e addirittura papà che ha svuotato il succo di frutta in cartone che avevamo lasciato come ristoro per Babbo Natale al posto del latte, i gatti non ne avrebbero risparmiato nemmeno una goccia. Papà aveva simulato il cartoncino vuoto strizzato con la cannuccia infilata ed era tornato a letto, ma mi confessa che non era riuscito più a riprendere sonno. Aveva iniziato a rimuginare a una situazione proprio tipo questa, io che vivevo con una borsa di studio negli USA e loro che mi venivano a trovare per Natale. Poi, mi dice, gli era sembrata straziante la distanza in confronto alla vicinanza di noi tre in quel momento, stretti nel letto. E aveva provato a fare mentalmente dei fotomontaggi come se avesse Photoshop aperto, sovrapponendo il mio volto all’interfaccia di Skype, ai tempi si usava ancora quello per video-comunicare tramite Internet, ma non ci riusciva perché il programma andava in crash con un’operazione irreale come usare il viso di me bambina, e gli era impossibile figurarsi i lineamenti che avrei avuto da grande. E a furia di pensare a quella storia aveva pure perso il sonno, e si era addirittura alzato per scriverla.

natale a casa pound

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Leggo da Questione della decisione una notizia Ansa secondo cui la figlia ottantaseienne del poeta Ezra Pound, residente in Italia, ha avviato un procedimento legale contro la banda che, in nome del padre, occupa e preoccupa da destra e un po’ più in là. Non risolverà certo il problema dell’assenza di valori che induce a tatuarsi Hitler sul petto o a riconoscere dittatori quali migliori statisti, anche quando penzolano al contrario da una pensilina. Ma è comunque una bella notizia. Imperdibile il passaggio “Pound non era di sinistra o di destra e si deve capire i Cantos per capire questo. È anche una questione di stile. Ho visto le immagini del loro leader con la testa rasata, e non mi ha certo impressionato favorevolmente”. Concordo sulla questione di stile. Che si chiamino Casa Gasparri, quello sì che è un pensatore alla loro altezza.

prova con un po’ di tenerezza

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I bambini poveri, nelle favole di Natale, stanziano con gli occhi imploranti e le facce appiccicate alle vetrine delle botteghe di dolciumi e di giocattoli, osservando sognanti i vari Ebezener Scrooge (redenti) del caso acquistare questo e quello fino a quando il commesso più antipatico, infastiditosi, li caccia via. Poi i bimbi crescono e alcuni di essi, nel periodo natalizio, proprio quando aumenta un po’ ovunque – forse a causa di un meccanismo pseudo-pavloviano – la bramosia da acquisto, tengono un analogo comportamento fuori e dentro i negozi di libri, dischi e strumenti musicali. Ma in realtà questa sorta di “consumo interrotto” viene esercitata durante tutto l’anno, è che in prossimità delle feste il contesto rende tutto più drammatico e, per chi passa di lì, è più facile farci caso. Perché quei ragazzini già durante l’anno, a furia di stazionare nelle librerie e nei negozi di musica, sono riusciti a entrare nelle grazie di proprietari e lavoranti in un modo un po’ strumentale, tanto che a furia di vederseli lì, ogni pomeriggio a esplorare scaffali, tirare fuori volumi o vinili da copertine colorate, chiedere di provare questo o quell’altro synth senza poi acquistare nulla, sono diventati di casa, una forma di affido educativo parziale, solo per il tempo libero, che però mai favorisce i sentimenti più profondi tanto da indurre il proprietario o il commesso amico a fare un regalino come forma di ringraziamento per una così assidua presenza, anche perché la semplice presenza non consente affari di alcuna sorta e non aumenta gli introiti dell’esercizio nemmeno di un centesimo. Il mondo funziona così, purtroppo. Ma la passione di quei giovanissimi clienti solo in potenza, mai in atto, poi cresce e in loro si manifesta il desiderio di percorrere quella stessa strada professionale. Chissà, pensano, un giorno potrei avviare una libreria, rilevare questo negozio di dischi o vendere strumenti musicali. Per fortuna poi cambiano idea, altrimenti, visti i tempi che corrono, sarebbero già sul lastrico. Ma non mancano le testimonianze di come potrebbe essere stata, per esempio, una bottega di vinile di culto se uno di quei mocciosetti perditempo avesse testardamente perseguito il suo sogno nel cassetto.

dalla Ruzzia con amore

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la prima ora delle vacanze di Natale

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Mentre esco con mia figlia per mano dal cancello del cortile di mia suocera e lei mi sta travolgendo con il solito mix di domande e di cose da raccontare una dietro l’altra che non riesci né a rispondere e tantomeno a intervenire perché è già quattro ore che non ci vediamo e in quelle quattro ore sono successe tante, troppe cose, e per fortuna questa volta sono in vacanza, anzi sta trascorrendo la mia prima ora ufficiale di vacanza e non me ne sono ancora reso conto del tutto. Ma sono lì al cancello di questo insieme di condomini di una cooperativa che sembra un po’ la periferia di una città qualsiasi del Patto di Varsavia, però potremmo essere sui gradini della Défense a Parigi perché non è l’architettura che fa la felicità ma quel pezzo di me che ho per mano e tutto è perfetto, e dietro di noi arriva zoppicando la signora con la barba e il bastone, la conosco di vista perché abita lì e avrà almeno novant’anni che, a parte la barba, spero di portarli così tali e quali a lei, e sente quella specie di dialogo che poi è un monologo. E mentre le tengo aperto il cancello lei ci guarda e mi dice che io e mia figlia le ricordiamo lei e suo papà, che quando veniva a prenderla gli faceva una testa così a furia di fare domande e raccontare cose. E chissà tutte quelle cose, tutte le parole, tutto quell’amore e quella gioia nel vedere il padre, che ora stiamo vivendo in tre lei compresa, e suo padre stesso, ecco chissà dove sono finiti adesso.

ritorno al futuro

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L’aspetto che mi piace di meno dei ricordi delle storie d’amore – è già la seconda che mi capita a tiro nel giro di due giorni – o delle semplici avventure che sento narrare dalle persone che più o meno hanno la mia età, imprese ambientate ai tempi della loro gioventù e che era anche la mia, è che spesso hanno come colonna sonora o canzone di riferimento pezzi anni 80 ma di quelli che dovrebbero già essere morti e sepolti e che invece, vuoi per la mania del trash, vuoi per tutte le operazioni nostalgia che si sono ripetute in seguito, alla fine siamo ancora qui a parlarne e non è così raro accendere la radio, in qualunque momento della giornata, fare un po’ di zapping tra i canali e sbatterci il muso. La tesi di fondo, come ho avuto più volte modo di argomentare in questo spazio, è che a furia di vagare nel nulla oramai siamo spinti a considerare tutto quello composto all’epoca delle giacche spencer vere chicche artistiche, e allo stesso tempo si giunge a una sintesi in cui Simon Le Bon appartiene a una stessa categoria di Adrian Borland, per esempio, quando invece erano celebrità di riferimento di target agli antipodi e la sola idea mi fa rabbrividire. Quindi vengo a sapere di feste in cui lui nota i capelli vaporosi di lei sulle note di Broken wings dei Mr. Mister, o che gente del calibro dei Cock Robin ha unito coppie sopravvissute fino ad ora, malgrado abbiano danzato la prima volta l’una di fronte all’altro guardandosi negli occhi e mormorando insieme “remember the promise you made”. Fossi in loro non andrei a raccontarlo così in giro.

prenderla con filosofia (orientale)

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Al banco delle informazioni la receptionist compie una torsione innaturale per mostrare alla coppia che si sta interessando alla proposta di corsi il depliant con tutte le combinazioni possibili di offerta, gli orari e i prezzi. Non le basta semplicemente ruotare di 180 gradi il foglietto illustrativo ma lo accompagna con il busto e la testa sporgendosi di poco verso gli astanti ma mantenendo piedi e ginocchia immobili. I casi sono due: o fa parte di una squadra di supereroi marveliani tipo i Fantastici Quattro o è una delle insegnanti di Yoga. Vista la competenza e il linguaggio fortemente tecnico la seconda opzione risulta la più credibile, inanella infatti una serie di termini a me incomprensibili al che mi chiedo come sia possibile rivolgersi così al pubblico, magari i due che ha davanti sono meno che neofiti e si stanno avvicinando al mondo della meditazione totale per la prima volta, ne usciranno così più confusi di prima. Ma la componente maschile della coppia sa il fatto suo, anche troppo. Interrompe l’interlocutrice ammettendo di aver praticato in passato diverse arti marziali, tra cui boxe thailandese e pugilato. Nella mia profonda ignoranza di tutto ciò che si trova più a oriente del Cremlino e della Pravda (ma onestamente prima del 1989) mi chiedo cosa accomuni la disciplina della meditazione (a pagamento) che così tanto appassiona mia figlia con il prendersi a cazzotti e pedate in faccia all’occidentale e non, ma non è questo il punto.

Mi colpisce la naturale aggressività con cui la persona che ora tiene in mano il listino della palestra, quel maschio alfa che conduce la conversazione dall’alto della sua perizia in sport di contrasto versus la ferma abilità con cui dall’altra parte la sua interlocutrice para tutti i colpi dando l’impressione di avere un vetro anti-proiettili davanti, come un impiegato delle poste al sicuro dai germi e dalla saliva del pubblico incattivito dalle code. Ora, la morale della storia dovrebbe essere che il bravo spettatore della scenetta, che poi riferisce tutto per filo e per segno sul suo diario online, vorrebbe essere permeato di quello strato di resistenza attiva agli agenti del male esterni, come l’inquilina di quella fortezza di equilibrio invisibile che rende vani gli attacchi del logorio della maleducazione moderna. No. Il mio plauso questa volta va all’antagonista, in questo caso l’animale da combattimento che si concilia con il mio desiderio segreto di essere un violento e un arrogante e menare, ma solo per giusta causa, sia chiaro, laddove i parametri della giustizia rientrano nei termini della nostra legge. Chiaro che non lo dico a nessuno, non vorrei deludere quelli che mi considerano un esempio di pazienza e apertura verso il prossimo. Il problema è che non so come e dove si apprenda l’aggressività, quella vera, che traspare anche solo a parole e che induce il prossimo a chiudere lì il discorso per non rischiare lo scontro, anche quando chiedi solo delle informazioni e senti bisogno – discutibile o meno – di delimitare il tuo perimetro minimo di sicurezza, superato il quale si attiva la reazione da usurpazione di titolo, e allunghi un ceffone e la cosa si chiude lì.

complicità e complicazione hanno la stessa radice?

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Leggo in un romanzo un passaggio riguardo ai figli che trovano in un modo o nell’altro la via per contrapporsi ai genitori, se non di ribellarsi, il che costituisce una fase inevitabile della crescita. Per me e per molti della mia generazione e di quelle contigue è stato fin troppo facile trovare i punti di rottura anche solo provvisori, che poi alcune ferite oggettivamente irragionevoli si sanano altre, giustamente, hanno conseguenze e restano come monito, le cosiddette cicatrici, o nel peggiore dei casi si infettano purulente dando luogo a secrezioni che ti inondano la casa, dio che schifo, tanto che poi fai prima a dartela a gambe che a gettarti in quel magma per mettere in salvo gli altri. Ma ora è diverso, no? Se metti a disposizione di un figlio una opzione e il contrario della stessa rendendo plausibile cioé anche la versione alternativa alla via corretta, lo so sto parlando troppo genericamente ma preferirei non entrare nei dettagli. Se gli/le dimostri che ci sono due possibilità entrambe accettate e riconosciute dal diritto naturale della microsocietà famigliare cui appartiene, e si tratta di un bipolarismo in grado di coprire l’intera gamma dei comportamenti dal più tradizionale al più scavezzacollo, e mettiamo che il figlio capisce che di là ci sono solo alleati e che nessuno è nemico, perché un nemico non ti offre una via di fuga. Ecco, poi uno/a cresce e a cosa si ribella? Posso considerarmi tutelato? La mancanza di scontro può essere deleteria? C’è un dottore in sala?

da Kim Jong-il a Kim Jong-un: una successione in un articolo

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Questa era una battuta. Carina, vero?

la variabile dipendente

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Non potrei mai essere un imprenditore, me ne accorgo ogni anno a Natale, momento in cui mi farei prendere dalla prodigalità e mi metterei a fare doni a chi lavora per me, a dimostrazione della graditudine all’abnegazione con cui i dipendenti mi consentono, giorno dopo giorno, di mantenere il mio stile di vita, conferiscono dignità alla mia impresa, aggiungono valore grazie alla loro professionalità ai prodotti che escono con il mio nome stampato sopra. Così, l’ultimo giorno prima dei saluti e degli scambi di auguri, li radunerei tutti in sala riunioni e ne elogerei apertamente il merito, ricompensandoli uno ad uno per i loro sforzi e ringraziandoli per dedicare così tanto tempo della loro vita, pagato ma mai abbastanza, alla mia idea e alle attività necessarie a metterla in atto. Ringrazierei le loro famiglie perché rinunciare alla presenza di un loro congiunto che passa il tempo nel mio ufficio è comunque un sacrificio. Le vite loro e la mia, professionale e privata, sono e saranno per sempre intrinsecamente legate. Farei quindi regali anche ai loro parenti, grazie, direi, grazie per quello che fate. Si tratta di un comportamento anti-economico e fuori dal mercato, lo so, in un paio d’anni fallirei e non potrei più nemmeno mantenere gli stessi stipendi e lo stesso numero di persone, chissà. Ma non ne sono così certo. Avrei al mio fianco una squadra fidata e imbattibile con cui sbaragliare la concorrenza grazie anche al tasso di turn over ai minimi termini e all’elevato know how interno. Per non parlare dell’entusiasmo. Potrei visitare i settori operativi e respirare il rispetto reciproco, camminare tra la stima delle persone valorizzate che si spendono per me. Non potrei mai essere un imprenditore, e comunque anche se lo fossi nessuno ci crederebbe.