dalla Ruzzia con amore

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la prima ora delle vacanze di Natale

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Mentre esco con mia figlia per mano dal cancello del cortile di mia suocera e lei mi sta travolgendo con il solito mix di domande e di cose da raccontare una dietro l’altra che non riesci né a rispondere e tantomeno a intervenire perché è già quattro ore che non ci vediamo e in quelle quattro ore sono successe tante, troppe cose, e per fortuna questa volta sono in vacanza, anzi sta trascorrendo la mia prima ora ufficiale di vacanza e non me ne sono ancora reso conto del tutto. Ma sono lì al cancello di questo insieme di condomini di una cooperativa che sembra un po’ la periferia di una città qualsiasi del Patto di Varsavia, però potremmo essere sui gradini della Défense a Parigi perché non è l’architettura che fa la felicità ma quel pezzo di me che ho per mano e tutto è perfetto, e dietro di noi arriva zoppicando la signora con la barba e il bastone, la conosco di vista perché abita lì e avrà almeno novant’anni che, a parte la barba, spero di portarli così tali e quali a lei, e sente quella specie di dialogo che poi è un monologo. E mentre le tengo aperto il cancello lei ci guarda e mi dice che io e mia figlia le ricordiamo lei e suo papà, che quando veniva a prenderla gli faceva una testa così a furia di fare domande e raccontare cose. E chissà tutte quelle cose, tutte le parole, tutto quell’amore e quella gioia nel vedere il padre, che ora stiamo vivendo in tre lei compresa, e suo padre stesso, ecco chissà dove sono finiti adesso.

ritorno al futuro

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L’aspetto che mi piace di meno dei ricordi delle storie d’amore – è già la seconda che mi capita a tiro nel giro di due giorni – o delle semplici avventure che sento narrare dalle persone che più o meno hanno la mia età, imprese ambientate ai tempi della loro gioventù e che era anche la mia, è che spesso hanno come colonna sonora o canzone di riferimento pezzi anni 80 ma di quelli che dovrebbero già essere morti e sepolti e che invece, vuoi per la mania del trash, vuoi per tutte le operazioni nostalgia che si sono ripetute in seguito, alla fine siamo ancora qui a parlarne e non è così raro accendere la radio, in qualunque momento della giornata, fare un po’ di zapping tra i canali e sbatterci il muso. La tesi di fondo, come ho avuto più volte modo di argomentare in questo spazio, è che a furia di vagare nel nulla oramai siamo spinti a considerare tutto quello composto all’epoca delle giacche spencer vere chicche artistiche, e allo stesso tempo si giunge a una sintesi in cui Simon Le Bon appartiene a una stessa categoria di Adrian Borland, per esempio, quando invece erano celebrità di riferimento di target agli antipodi e la sola idea mi fa rabbrividire. Quindi vengo a sapere di feste in cui lui nota i capelli vaporosi di lei sulle note di Broken wings dei Mr. Mister, o che gente del calibro dei Cock Robin ha unito coppie sopravvissute fino ad ora, malgrado abbiano danzato la prima volta l’una di fronte all’altro guardandosi negli occhi e mormorando insieme “remember the promise you made”. Fossi in loro non andrei a raccontarlo così in giro.

prenderla con filosofia (orientale)

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Al banco delle informazioni la receptionist compie una torsione innaturale per mostrare alla coppia che si sta interessando alla proposta di corsi il depliant con tutte le combinazioni possibili di offerta, gli orari e i prezzi. Non le basta semplicemente ruotare di 180 gradi il foglietto illustrativo ma lo accompagna con il busto e la testa sporgendosi di poco verso gli astanti ma mantenendo piedi e ginocchia immobili. I casi sono due: o fa parte di una squadra di supereroi marveliani tipo i Fantastici Quattro o è una delle insegnanti di Yoga. Vista la competenza e il linguaggio fortemente tecnico la seconda opzione risulta la più credibile, inanella infatti una serie di termini a me incomprensibili al che mi chiedo come sia possibile rivolgersi così al pubblico, magari i due che ha davanti sono meno che neofiti e si stanno avvicinando al mondo della meditazione totale per la prima volta, ne usciranno così più confusi di prima. Ma la componente maschile della coppia sa il fatto suo, anche troppo. Interrompe l’interlocutrice ammettendo di aver praticato in passato diverse arti marziali, tra cui boxe thailandese e pugilato. Nella mia profonda ignoranza di tutto ciò che si trova più a oriente del Cremlino e della Pravda (ma onestamente prima del 1989) mi chiedo cosa accomuni la disciplina della meditazione (a pagamento) che così tanto appassiona mia figlia con il prendersi a cazzotti e pedate in faccia all’occidentale e non, ma non è questo il punto.

Mi colpisce la naturale aggressività con cui la persona che ora tiene in mano il listino della palestra, quel maschio alfa che conduce la conversazione dall’alto della sua perizia in sport di contrasto versus la ferma abilità con cui dall’altra parte la sua interlocutrice para tutti i colpi dando l’impressione di avere un vetro anti-proiettili davanti, come un impiegato delle poste al sicuro dai germi e dalla saliva del pubblico incattivito dalle code. Ora, la morale della storia dovrebbe essere che il bravo spettatore della scenetta, che poi riferisce tutto per filo e per segno sul suo diario online, vorrebbe essere permeato di quello strato di resistenza attiva agli agenti del male esterni, come l’inquilina di quella fortezza di equilibrio invisibile che rende vani gli attacchi del logorio della maleducazione moderna. No. Il mio plauso questa volta va all’antagonista, in questo caso l’animale da combattimento che si concilia con il mio desiderio segreto di essere un violento e un arrogante e menare, ma solo per giusta causa, sia chiaro, laddove i parametri della giustizia rientrano nei termini della nostra legge. Chiaro che non lo dico a nessuno, non vorrei deludere quelli che mi considerano un esempio di pazienza e apertura verso il prossimo. Il problema è che non so come e dove si apprenda l’aggressività, quella vera, che traspare anche solo a parole e che induce il prossimo a chiudere lì il discorso per non rischiare lo scontro, anche quando chiedi solo delle informazioni e senti bisogno – discutibile o meno – di delimitare il tuo perimetro minimo di sicurezza, superato il quale si attiva la reazione da usurpazione di titolo, e allunghi un ceffone e la cosa si chiude lì.

complicità e complicazione hanno la stessa radice?

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Leggo in un romanzo un passaggio riguardo ai figli che trovano in un modo o nell’altro la via per contrapporsi ai genitori, se non di ribellarsi, il che costituisce una fase inevitabile della crescita. Per me e per molti della mia generazione e di quelle contigue è stato fin troppo facile trovare i punti di rottura anche solo provvisori, che poi alcune ferite oggettivamente irragionevoli si sanano altre, giustamente, hanno conseguenze e restano come monito, le cosiddette cicatrici, o nel peggiore dei casi si infettano purulente dando luogo a secrezioni che ti inondano la casa, dio che schifo, tanto che poi fai prima a dartela a gambe che a gettarti in quel magma per mettere in salvo gli altri. Ma ora è diverso, no? Se metti a disposizione di un figlio una opzione e il contrario della stessa rendendo plausibile cioé anche la versione alternativa alla via corretta, lo so sto parlando troppo genericamente ma preferirei non entrare nei dettagli. Se gli/le dimostri che ci sono due possibilità entrambe accettate e riconosciute dal diritto naturale della microsocietà famigliare cui appartiene, e si tratta di un bipolarismo in grado di coprire l’intera gamma dei comportamenti dal più tradizionale al più scavezzacollo, e mettiamo che il figlio capisce che di là ci sono solo alleati e che nessuno è nemico, perché un nemico non ti offre una via di fuga. Ecco, poi uno/a cresce e a cosa si ribella? Posso considerarmi tutelato? La mancanza di scontro può essere deleteria? C’è un dottore in sala?

da Kim Jong-il a Kim Jong-un: una successione in un articolo

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Questa era una battuta. Carina, vero?

la variabile dipendente

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Non potrei mai essere un imprenditore, me ne accorgo ogni anno a Natale, momento in cui mi farei prendere dalla prodigalità e mi metterei a fare doni a chi lavora per me, a dimostrazione della graditudine all’abnegazione con cui i dipendenti mi consentono, giorno dopo giorno, di mantenere il mio stile di vita, conferiscono dignità alla mia impresa, aggiungono valore grazie alla loro professionalità ai prodotti che escono con il mio nome stampato sopra. Così, l’ultimo giorno prima dei saluti e degli scambi di auguri, li radunerei tutti in sala riunioni e ne elogerei apertamente il merito, ricompensandoli uno ad uno per i loro sforzi e ringraziandoli per dedicare così tanto tempo della loro vita, pagato ma mai abbastanza, alla mia idea e alle attività necessarie a metterla in atto. Ringrazierei le loro famiglie perché rinunciare alla presenza di un loro congiunto che passa il tempo nel mio ufficio è comunque un sacrificio. Le vite loro e la mia, professionale e privata, sono e saranno per sempre intrinsecamente legate. Farei quindi regali anche ai loro parenti, grazie, direi, grazie per quello che fate. Si tratta di un comportamento anti-economico e fuori dal mercato, lo so, in un paio d’anni fallirei e non potrei più nemmeno mantenere gli stessi stipendi e lo stesso numero di persone, chissà. Ma non ne sono così certo. Avrei al mio fianco una squadra fidata e imbattibile con cui sbaragliare la concorrenza grazie anche al tasso di turn over ai minimi termini e all’elevato know how interno. Per non parlare dell’entusiasmo. Potrei visitare i settori operativi e respirare il rispetto reciproco, camminare tra la stima delle persone valorizzate che si spendono per me. Non potrei mai essere un imprenditore, e comunque anche se lo fossi nessuno ci crederebbe.

how soon is Christmas?

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I gradi di separazione tra me e Johnny Marr sono solo due, c’è Fabio De Luca a farci da intermediario, pensate un po’. E via Polaroid, ecco una deliziosa strenna natalizia da parte del nostro ex chitarrista degli Smiths (e degli Electronic, non dimentichiamolo) preferito, un pezzo per le festività in free download. Jingle all the way!

cosa hai intenzione di fare, uomo bianco?

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E comunque in epoche come queste di rigurgiti nazionalsocialisti, destre estreme che spuntano come i funghi venefici, apologie di svastiche, tatuaggi del fuhrer, gruppi apertamente nostalgici e altri che nicchiano ma al secondo bicchiere sono tutti tesi con il braccio in aria, non c’è niente di meglio che una soluzione finale alla John Belushi.

incline al raddoppio

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Fa un po’ vecchio ragionare in lire. Anche se in molti sono lì pronti a denigrare l’euro ormai si tratta di una valuta abbastanza consolidata, saranno dieci anni no? Ma quando vedo con la coda dell’occhio il cartellino nell’ennesima vetrina in allestimento (apro una parentesi, come vedete: che poi uno pensa che quello del vetrinista sia davvero un mestiere redditizio visto che tengono aperti cantieri ovunque, tutte le vetrine sono in allestimento più che la fabbrica del Duomo e mi viene da entrare e offrirmi volontario per terminare per loro, anche senza compenso, quell’opera incompiuta. Ma se osservi bene ti viene da pensare quale sia poi la parte da terminare, sembra tutto a posto e vuoi vedere allora che magari quella della vetrina in allestimento è una dicitura che si mette così, l’ennesimo trucchetto per aggirare qualche normativa per i titolari di negozi? mi accingo a chiudere la parentesi) dicevo che con la coda dell’occhio vedo il cartellino di un prezzo nell’ennesima vetrina in allestimento. Il cartellino dice pantalone 150 euro. Fa un po’ vecchio, ma trecentomila lire io non le spenderei mai per un paio di calzoni, non è solo prima della moneta unica che me ne sarei guardato bene. E ci sarà di mezzo la svalutazione, il rincaro dei prezzi e tutti i motivi per cui se acquisti quei pantaloni, un paio di scarpe, una camicia e un golfino in quel negozio alla fine superi i due milioni di lire, e fai i paragoni perché quando hai iniziato a lavorare uno stipendio da due milioni al mese, che oggi si sono liofilizzati nei mille euro dell”omonima generazione, quando ho iniziato a lavorare io due milioni al mese era un signor stipendio. Quindi dovrei lavorare un mese per vestirmi da capo a piedi e senza nemmeno un ricambio che prima o poi dovrò lavare qualcosa no? O faccio come si faceva ai tempi dei nostri nonni, che lavavano la sera per avere asciutto la mattina e pronto da essere indossato, un vestito e va bene così. E sapete che cosa ci si comprava con trentamila lire nel 75? Una cosa di valore, nel 75, perché trentamilalire di allora erano quasi i 150 euro di adesso, il prezzo di quei pantaloni che ho appena visto in vetrina, peraltro di taglio oltremodo discutibile. E io ricevetti in regalo a Natale di quell’anno il Subbuteo, sotto l’albero, che già non me lo speravo più perché da quando avevo saputo quanto costava lo avevo cancellato dalla lettera a Babbo Natale. Costava proprio trentamila lire, guarda un po’, e quello è stato il Natale più bello di tutta la mia vita precedente all’introduzione della moneta unica. Non chiedetemi cosa sceglierei, ora, se potessi, tra il Subbuteo e un paio di pantaloni così glamour.