alcune volte in cui ho combattuto la legge

Standard

Ha vinto quasi sempre la legge:

Ma una volta ho vinto io:

esami che non finiscono mai

Standard

Li chiamo il gatto e la volpe perché girano sempre insieme e hanno anche l’aspetto un po’ losco, ma quel losco da cattivi di una storia per bambini che ai grandi sembrano grotteschi, i classici protagonisti da brutto sogno, quelli che ti atterriscono durante l’infanzia e poi da adulto li rivedi e ti mettono a disagio. Uno è alto quasi due metri ed è anche un po’ grasso e potrebbe essere il gatto. La volpe invece è smilzo, un po’ più basso e ha occhiali tondi con le lenti scure e il codino. Già. Di losco hanno vari traffici illegali, droga più che altro ma fondamentalmente per stretto uso personale, e ci si chiede il perché siano sempre insieme a condividere quel tipo di storie raddoppiando così la loro anomalia, una macchia sospetta e mobile che attira l’interesse delle forze dell’ordine, per esempio, un facile bersaglio per una perquisizione. Documenti. Cosa hai in tasca. Svuota lo zainetto. Il gatto e la volpe sono due tossici, ma per il resto sono innocui. Ora sono preoccupati, il gatto ha un controllo proprio la mattina dopo, un esame delle urine, dev’essere stato beccato e ora ha queste scadenze periodiche per dimostrare di sapersi tenere pulito. Ma pulito non è, nemmeno stasera. E la simbiosi è tale per cui il problema di uno è il problema dell’altro. Questa è amicizia. Quando li incontro mi chiedono se posso fare una cosa per loro, e per una volta non sono soldi né un passaggio. Ma vi rendete conto di dove siamo, gli dico, in una piazza centrale all’una di notte, e poi nessuno dei tre ha con sé un recipiente. La volpe tira fuori la confezione di tabacco, sfila la busta di nylon che la contiene e me la porge. Non serve a nulla fargli notare che non si tratta di un contenitore asettico, non voglio aumentare il livello della complessità. C’è un portone aperto, mi infilo lì dentro, vado dietro il vano dell’ascensore e riempio il sacchettino, per fortuna loro avevo lo stimolo. E in quel mentre penso ai residui di tabacco che si mescoleranno al liquido, a come lo porteranno a casa, a quanto tempo dovranno tenere quel recipiente di fortuna in mano, voglio dire, la mira a quell’ora nella penombra può essere imprecisa. Penso al fatto che le analisi a cui sarà soggetto quel campione riguarderanno me, e che quindi se sarà diagnosticato qualche disturbo il gatto si spaventerà, poi si ricorderà che non si tratta di roba sua anche se lui qualche disturbo poi lo ha avuto, e anche serio. Cerco di chiudere il nylon come posso, mi ricompongo e torno fuori. Sono entrambi lì, ai due lati dell’ingresso, le sigarette accese. Consegno la merce, mi ricambiano con un sorriso, evito di stringere loro la mano, hanno già di che sporcarsele.

un tour semplice semplice

Standard

Ne parlavo giusto qualche giorno fa, ed ecco che i Simple Minds tornano con un tour, una formula piuttosto originale e succulenta per i palati vintage in cui proporranno cinque brani per ognuno dei primi cinque album (chiamato appunto 5×5 live), ovvero Life in a day, Empires and dance, Real to real cacophony, Sons and fascination e Sister feelings call, a meno che non intendano questi ultimi due come unico album doppio e includano anche New gold dream nel quintetto base. L’unica esperienza di reunion viste dal vivo che ho avuto è quella dei Police a Torino qualche anno fa, e malgrado le perplessità di partenza devo ammettere che il concerto è stato superlativo. Ma stiamo parlando di una band che può permettersi di iniziare una esibizione live con un pezzo come Message in a bottle, immaginate il resto. Dubito che Jim Kerr sia in forma come Sting, e devo ancora sincerarmi che Mick MacNeil sia rientrato in formazione dietro ai synth. Insomma, potrebbe avere anche un senso, o no?

per la massa

Standard

Quando il giornalista o il presentatore di un programma di informazione diventa una sorta di mediatore culturale con il pubblico, non lo fa certo con il fine umanitario di rendere l’esperienza dello spettatore più facile e piacevole. Anche perché o si tratta di un Gad Lerner, così acuto ed elevato da trovare la sintesi di tutto, e l’interpretazione di quanto accade durante il suo programma è il programma stesso. In tutti gli altri casi è solo il demerito di una personalità impropriamente ingombrante che pervade l’anchor man di turno, perché non occorre essere Umberto Eco, da questa parte dello schermo, per capire il senso di quello a cui si assiste e si ascolta anche senza l’intermediazione del Fabio Fazio o Enrico Mentana di turno. Ops, volevo tenermi i nomi per la fine del post e non farvi capire subito di chi stessi parlando, mai che riesca a creare un po’ di suspense.

c’era prima lei

Standard

Ieri sera più di mezz’ora ho dovuto aspettare fuori per mangiare un po’ di sushi. Mezz’ora. E il bello è che non esco mai, ma quando esco trovo sempre tutto pieno. Ma allora c’ha ragione quello là, quello che parte la domenica e va a Riva del Garda in elicottero mentre tutti sono in coda in macchina. Ma quale crisi, il ristorante era pieno. Sono tutti pieni. Poi ci saranno pure quelli in bolletta, non lo metto in dubbio, ma gli altri sono tutti fuori a spendere. Dicono che i centri commerciali sono pieni di gente che va lì a vedere e non compra niente, ma io non ci credo. Cosa vuol dire andare lì e guardare i Rolex o i pantaloni e le scarpe e non comprarsele. Se io vado al supermercato ci vado perché devo far la spesa, mica per guardare l’uva o i cetrioli. Son tutti lì a spendersi i soldi della pensione dei nonni, altro che. Dovrebbero fare una campagna per la protezione dei vecchi, altro che protezione degli animali. I vecchi sono gli unici che hanno i soldi, che hanno un reddito fisso, e allora i figli e i nipoti li mettono nel freezer e continuano a prendere la pensione. Sa a cosa servono tutti quei pozzetti e i congelatori che vendono adesso? Quelli grandi così? A tenerci dentro i vecchi. Ogni tanto tirano su il coperchio e gli fanno una carezza, come stai nonno? gli dicono, poi chiudono e li lasciano lì e nel frattempo gli arriva la pensione e loro vanno spendersela nei ristoranti. Più di mezz’ora ho dovuto aspettare fuori al freddo, dentro era pieno così. Poi sono riuscito a entrare, e ho mangiato tanto di quel sushi che stamattina ho passato un’ora in bagno.

(Anonimo lombardo durante la coda in panetteria, traduzione e adattamento dal milanese a cura di plus1gmt)

fyi

Standard

Siamo giunti al culmine della civiltà dell’abbreviazione, ora la crisi pervaderà anche questo aspetto del presente e, raggiunto il fallimento, potremmo ripartire dedicando il giusto tempo necessario a ogni cosa. Vezzi quali gli acronimi, i tiny url e lo stile di scrittura da codice fiscale più di così non possono essere ridotti, a meno di non assegnare a una cifra alfanumerica ogni parola ed esprimerci in una sorta di linguaggio crittografato, ma la vedo dura, troppo sforzo mnemonico per la nostra fase involutiva. Ci vedete a dire cose tipo as345yy per chiedere al tavolo a fianco nel bar se il petto di pollo è altrettanto congelato al centro come il nostro o, per rimanere nell’ambito della comunicazione scritta, accennare solo i suoni principali della parola per indicare la parola stessa, immagino già i fraintendimenti. Ma poi a quale pro? Velocizzare tutto per anticipare i tempi come se quello che sta per succedere dopo fosse un qualcosa di terribilmente eclatante, la svolta del secolo e invece non è affatto così, è un altro presente come quello appena archiviato, alla fine se ne vivranno tantissimi, più che in ogni altra epoca, ma la qualità rimarrà invariata e la quantità resterà in un cloud indefinito per i posteri che nel frattempo avranno chissà quale sistema operativo e il cloud sarà abbandonato nello spazio, come un satellite rotto che costa troppo riportarlo sulla terra e smaltirlo o, per fare un esempio conosciuto, come una batteria dell’automobile lasciata in un parcheggio di notte.  State tutti tranquilli, non succede mai niente, non vi perderete nulla a rallentare un po’. Ricomponete le vostre parole, ridate loro le vocali e le consonanti che gli spettano, ma rimettetele al posto giusto, mi raccomando.

una volta eravamo guerrieri

Standard

– Non c’è tempo, non c’è più tempo. Hai capito una buona volta? Non ho tempo.
La madre è al tracollo, la situazione è tesa. Il figlio sta rassettando la tavola, c’è puzza di fritto, la porta sul balcone spalancata per lasciare defluire l’aria ma è novembre e fa un freddo cane. Su Raiuno c’è la pubblicità di una berlina di lusso, al volante siete un uomo, un vincente, sullo sfondo una scogliera, sicuramente è un pezzo di oceano quello che si vede sotto.
– Non posso più farti da madre, hai capito? Ho ottant’anni e tu ne hai cinquanta. Non posso fare la mamma, sono troppo vecchia, dovrei essere già nonna, dovrei essere lasciata in pace. Non posso risolvere i tuoi problemi come quando mi chiamavano i tuoi professori a scuola. Non posso, lo capisci almeno questo? Voglio tirare i remi in barca.
C’è un altro televisore acceso, il marito è di là sul divano, ciuccia liquirizia con quello che gli rimane dei denti e segue un programma dedicato alle sagre locali. Funghi, castagne, prodotti di stagione. La guerra si combatte in cucina, di qua ci sono già le macerie. Ora la lavastoviglie è colma è può essere avviata, il figlio scrolla la tovaglia come ultima cosa fuori, le briciole cadono nel cortile. Poi soffia il filtro della caffettiera come fosse una cerbottana per eliminare la carica usata, come da bambino sparava le palline di stucco nelle interminabili battaglie all’oratorio, e fa centro nel sacco dell’umido anche questa sera.
– Vi preparo il caffè?

l’accento di lato

Standard

Ho scritto un po’ con l’accento sulla o, è vero, non come lo vedete ora, perché chiunque usi un computer sa che si trovano le lettere già accentate e che per mettere l’accento di lato devi fare tre mosse con la mano molto poco pratiche quando si scrive in velocità. E così è valso per altri casi. Sarei stata ignorante se avessi scritto «un apostrofo po’» non come era evidente a chiunque non fosse animato da pregiudizi faziosi, l’aver messo accenti certamente fuori posto ma dettati dalla comodità delle nuove tecnologie. Chiunque possieda un iPad può provare in questo istante a scrivere «ne» con l’accento e si troverà un «ne apostrofato». Il resto sono refusi di stampa dovuti ai programmi dei computer che tutti coloro che li usano regolarmente sanno che correggono automaticamente gli scritti facendoti incappare in facili errori.

Esilarante, come il resto della vicenda, soprattutto nel tributo alla madre professoressa malata e alla memoria del padre. In sintesi: quando sento la parola cultura, faccio tre mosse con la mano sull’iPad.

la classe non è app

Standard

Gli auricolari del distinto quarantenne che viaggia al mio fianco vibrano ed emettono rumori a un volume che già per l’ambiente è fastidioso, non oso immaginare per il suo apparato uditivo. Potrebbe essere un brano qualsiasi di una band industrial, ma no, è impossibile, il suo aspetto ordinario trasmetterebbe a chiunque ascolti deplorevoli (cit.). Così allungo l’occhio verso il display dello smartphone che tiene con le due mani, posizionato in orizzontale. Non si tratta di una playlist per iniziare la giornata con la giusta carica violenta e l’energia per demolire tutti gli avversari sul posto di lavoro, bensì uno di quei videogiochi ammazza-tutti, che ha lo stesso scopo della playlist da “all’arrembaggio” ma – diciamo – è un passatempo un po’ meno nobile. Lo vedo tutto concentrato a far esplodere cose e persone tramite pulsanti e ditate sul touch screen, l’audio è davvero irritante. Del mio stesso parere la signora davanti a noi, altrettanto elegante, che osserva l’eterno bambino dimenarsi e sfogare la rabbia virtuale contro nemici piccoli quanto il palmo della sua mano. Scuote la testa in un plateale giudizio tutt’altro che politically correct, come a condannare il modo inconcepibile con cui un adulto sceglie di perdere il proprio tempo, quindi torna a concentrarsi sul suo, di smartphone, e riprende a leggere i commenti al suo status di Facebook.

il nuovo dei radiohead?

Standard

Mavalà, è il nuovo di Mariano Apicella con un po’ di fotoritocco. La copertina però stride con lo stile del menestrello alla corte dell’ex premier, e non sfigurerebbe nella discografia di un gruppo indie qualunque. Buon ascolto.