un storia senza coda

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Ora riesco a guardarlo con distacco, non sono più innamorato anzi mi è del tutto indifferente. Del tutto proprio no, chiaro, mi sono seduto in braccio a lui per così tanto tempo. Mi sono persino rovinato la schiena per stargli il più addosso possibile nel modo più corretto possibile, a discapito della colonna vertebrale. Il bello è che prima ero in sua balìa, era lui a decidere dove andare, cosa fare e come farlo. Ma ero così giovane e innocente, lui con il suo fascino avrebbe potuto fare di me quel che voleva. Ora è vecchio e io sono nel pieno dell’età adulta, basterebbe avere un po’ di elasticità in più e sono convinto che avrei la meglio, lo terrei in pugno. Il trucco è stato non vederci più, addirittura cambiare città e mettere tra noi duecento chilometri. E i primi tempi proprio l’avevo rimosso, ero tutto preso da altre passioni. Avevo occhi e carezze solo per esperienze più moderne, più fredde, la plastica contro il legno, la tecnologia contro la tradizione. Poi sapete com’è, si cresce e si impara a perdonare, i punti di vista cambiano, si re-interpreta il passato. Ma se penso a quanto mi ha fatto soffrire. Probabilmente era troppo per me, stavo ore e ore con lui ma non ne aveva mai abbastanza, e andava sempre peggio perché era sempre più difficile. E quando le cose non andavano per il verso giusto mi accecavo dalla rabbia, gli ho dato pugni e calci. Poi mi facevo beffe, lo prendevo in giro, anziché seguire le regole facevo di testa mia, complice sicuramente qualcuno che da fuori sobillava. E lì è stato il momento di rottura, le sue pretese sono diventate inaccettabili e io capito che era meglio finirla. Anche se a lui non importava nulla di essere abbandonato, sapeva che ormai sarebbe rimasto una parte fondamentale della mia vita. Tanto che ci ho riprovato, ero già grande, ma a nulla è servito. Il rapporto si era rotto per sempre. Poi basta.

E ieri, e ieri l’altro, nella stessa stanza in cui ha riposato tutti questi anni, mi sono seduto di fronte a lui. Ho aperto un libro, uno di quelli che capivamo solo noi due, gli ho chiesto di tenerlo in mano, e ho provato a leggerglielo. Ho capito che, allora, non ero pronto, e come allora è difficile perché ancora oggi non so dove guardare, ed è li la chiave di tutto. Guardo il libro e quei segni, o guardo le mani che corrono su di lui, ma che se non sanno dove mettere le dita devo tornare sul libro e il segno non è detto che sia ancora lì, a portata di mano. E ho ritrovato tutto come era allora: la stessa angoscia di commettere gli errori che spezzano l’incantesimo dell’esecuzione, i passaggi in cui basta mettere un dito al posto di un altro e non riesci a arrivare in fondo o in cima alla scala. Le alterazioni in chiave e il bequadro che la annulla, ma è il tasto nero o quello bianco? Le terze, le seste, le none. L’interpretazione, il pianissimo e il puntato. Bach. Mozart. Secoli di musica che gli studi classici non tengono in considerazione, probabilmente non è nella nostra cultura, o invece oggi le cose sono cambiate e non lo so. L’improvvisazione è alla base anche del piano di studi per il diploma in pianoforte? Non credo proprio. Ma non sta a noi due decidere queste cose, litigare non cambia nulla, per un giorno facciamo finta. Ed è stato bello passare insieme un pomeriggio, dopo che per anni per ore e ore sono stato lì a produrre suoni e imparare pezzi, tanto che mi è bastato qualche minuto per ricordarli come se non avessi mai smesso. E se sono tranquillo è perché non è più nelle mie corde, anzi è solo nelle sue e forse, nelle mie, non lo è stato mai, e l’ho capito solo ora.

i morti

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Stanno ognuno immobile nella sua foto, da soli o in coppia, in fila sul trumò che anno dopo anno è diventato l’altare, il monumento alla memoria, l’ara dedicata ai penati. Ci sono quelli un po’ ingialliti nella foto con il bordino bianco stampata ormai quarant’anni fa, quelli già invece immortalati dalla digitale in quel modo approssimativo, lo stesso con cui i pixel fanno l’approssimazione dei colori in situazioni di luminosità non riconosciute. Il nonno in giacca spigata, gilet, camicia e cravatta con la sigaretta in mano, seduto a fianco della nonna con la borsa in grembo sul muretto, quello vicino al santuario che sta di fronte al cimitero. Forse proprio a ridosso del giorno dei morti, dietro la campagna triste e gli alberi spogli. Guarda che combinazione: quasi mezzo secolo fa, un passato in cui c’ero già anche io e di cui ho persino qualche ricordo. Gli altri nonni, quelli del mare, solari e sorridenti sulla terrazza, dietro il litorale con le prime avvisaglie dello sviluppo industriale (oggi già dismesso) che lo travolgerà. Poi un paio di cugini scomparsi, giovanissimo uno e giovane l’altra, per motivi che oggi farei di tutto per evitare, magari impegnandomi in prima persona. I prozii paterni, che non hanno mai avuto figli e per i quali eravamo noi la loro discendenza. Il fratello di mio papà, fotografato insieme a lui con i guantoni da boxe, mancato a quindici anni non si sa di che. Due sorelle di mia mamma morte più recentemente e i loro mariti, una generazione – quella di primo grado – che annovera ancora sopravvissuti ormai abbondantemente intorno agli ottanta. Ma quelli che sono dall’altra parte, sul trumò, ora sono lì che mi guardano ognuno con qualcosa di familiare, dettagli che se mi osservo con cura allo specchio riesco a percepire anche in me. Il mento, il naso, l’attaccatura dei capelli, la statura, la postura, il sorriso. Tutti che mi guardano a due dimensioni dentro a cornici d’altri tempi, nei loro colori più o meno fedeli alla realtà, quella a cui un tempo appartenevano con entusiasmo. E passerà solo qualche decennio e ci sarà una parete, da qualche parte, una muraglia da record tutta tappezzata dalle foto che abbiamo fatto alle persone che non esistono più, ognuna in una posa che li ha resi famosi ed eterni almeno nel ricordo di chi in qualche modo ha voluto fermare l’attimo. Quell’unica posa che è rimasta viva e che sopravviverà fino a quando qualcun altro si metterà al loro posto.

cose che col tempo diventano superflue

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Pensavo a un elenco, che può iniziare con il pettine o le giacche di pelle anni 70, i nastri magnetici e anche la carta, perché no. Cose che io, vuoi l’età e il progresso, non uso più. E, in senso lato, tra i primi dieci c’è spazio per Pannella e i radicali, anche se vanno benissimo come bersaglio per esercitare la mira. E il servizio d’ordine, perché no, d’altronde chi ha voglia di fare a botte con quelli dei centri sociali? I centri sociali stessi diventano superflui, ora la vera alternativa sarebbe davvero farsi la tessera di un partito, un comportamento così di nicchia. E a cosa serve vedersi in piazza e marciare su e verso il nemico comune, il McDonald di ieri che è la Banca d’Italia di oggi e se per strada c’è un Apple Store tanto meglio: l’iPhone nero che fa pendant con la divisa da perfetto guastafeste con la mazza, oggi l’esproprio proletario è per i beni di lusso. Leggere di chi strumentalizza questi figli di papà che rubano la scena ai precari, a braccetto con i fascisti e gli ultras dello stadio e gli infiltrati da chi sappiamo è altrettanto fuori tempo massimo. Fa persino venir voglia di rivedere le proprie posizioni su chi tentava di annientare il mercato a colpi di estintore.

indisposizione

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Una volta ho bucato in pieno un incontro importante di lavoro. L’appuntamento era Torino, nella sede di un importante cliente di un mio cliente un po’ meno importante. Il mio cliente un po’ meno importante aveva promesso al suo importante cliente che avrebbe portato con sé un giornalista per un’intervista, quei marchettoni edulcorati che vanno spalmarsi su pagine a pagamento mascherate da informazioni, note agli operatori del settore e non come publiredazionali o pubbliredazionali (ci sono due correnti di pensiero sull’uso della doppia, io preferisco la seconda). Era programmato da più di due settimane, troppo per la mia capacità organizzativa, in un ambiente in cui ci vengono chieste cose dalla mattina per la sera, al massimo per il giorno successivo. Una volta stabilito giorno e ora, non so il perché e il percome ma ho dimenticato di annotare l’appuntamento in agenda e mi sono tuffato nuovamente nella sala macchine della produzione fatta di urgenze, imprevisti, tecnologia che si ribella e lotte contro il tempo. Ah, e io sono tutto tantomeno un giornalista.

E quella mattina è arrivata, come tutte le altre. L’incontro era fissato per il dopo pranzo. Il mio cliente, che comunicava con me tramite una collega pierre di sicuro perché più carina e comunque del sesso giusto per giustificare un rapporto epistolare professionale quotidiano e un fee all’agenzia, per scrupolo le chiede se era tutto confermato, e che mi avrebbe atteso all’ora stabilita all’ingresso della sede del loro cliente. La collega mi inoltra l’aggiornamento, e dentro di me scende il gelo, come quando apri gli occhi e ti accorgi di aver spento la sveglia chissà quante ore prima e avevi un treno da prendere che ha fatto a meno di te. Realizzo che non ce la farei a precipitarmi a Torino e arrivare in tempo.

Chiamo il mio cliente e gli dico la verità. Ma gli propongo anche la soluzione, una banale intervista telefonica. Loro stanno lì e io, facciamo pure finta che sono malato, da qui. Accetta, inequivocabilmente scazzato, ma capisce che non c’è altro sistema per porre rimedio. Rimaniamo che mi chiama lui alle 14. E puntualmente squilla il telefono, quindi le presentazioni di rito, insieme a lui ci sono i vertici dei sistemi informativi di questa grande azienda italiana, una società molto importante. Ma il più “vertice” dei due chiede al mio cliente che cosa stiamo per fare. Lui, sommessamente, spiega la finalità del meeting, l’intervista telefonica, quello che previa loro approvazione ne conseguirà. Al che ottiene in risposta che non se ne parla, ogni intervista per una società del loro livello può essere rilasciata solo tramite l’ufficio stampa (concordo) e quindi gli dispiace ma non si può fare. Il mio cliente chiude la conversazione visibilmente (anche se non lo vedo) amareggiato. Ma il cliente, in questo caso il suo, ha sempre ragione, no?

E niente, una volta ho bucato in pieno un incontro importante di lavoro, ma l’incontro stesso era un buco, e non ci sono finito dentro per puro caso.

linguistica applicata

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Ogni tanto mi capita di trovarmi in mezzo a gente che limona più o meno appassionatamente. Non in mezzo nel senso fisico, chiaro, ma di trovarmeli davanti in momenti in cui meno me lo aspetto. La mattina presto nel sottopasso della stazione, in qualche anfratto delle vie meno battute del centro, sulle panchine del parco dopo il tramonto quando vado a correre, e trattandosi di un circuito, passo lì davanti più volte senza riuscire a farli scomporre. In questo caso non è un problema loro, bensì un problema mio. Sono amanti che cercano un po’ di privacy in posti pubblici, e io passo di lì. Così  faccio finta di nulla, controllo di avere il cellulare acceso, leggo manifesti che altrimenti passerebbero inosservati.

Ma talvolta la situazione è opposta: la coppia si bacia alla francese in luoghi aperti, nel centro del marciapiede ostruendo il passaggio, sui sedili della metro, sulla banchina della stazione. Non è che la vista mi dia fastidio, bensì il rumore. Quel biascichio che esala dall’immobile gruppo laocoontico di corpi impropriamente avvinghiati esposti a visitatori passivi, l’umana betoniera intenta a impastare saliva in orari comunemente dedicati al riconnettersi con la realtà, al rientro dopo una giornata di alienazione, o alla snervante attesa di qualcosa, in cui il sottofondo audio – non richiesto – ne accentua l’insostenibilità. In strada limonano giovani e meno giovani; per questo dovremmo ingegnarci a sfruttare le rotazioni linguali più focose con un connettore e una dinamo. Convertiamo l’energia cinetica e illuminiamo gli angoli bui del pianeta, quelli più battuti dalle coppie che si appartano, per godere dei vantaggi dell’energia alternativa.

ricambi accessori

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“Quali differenze ritiene che ci siano tra l’essere giovane quando frequentava le scuole superiori e l’essere giovane oggi?”. Una delle ragazzine più spigliate ha comunque preferito leggere la domanda tutta d’un fiato scritta a penna in un quaderno a spirale. Tra me e lei, il suo compagno di classe reggeva la fotocamera digitale, e a me veniva voglia di vedere come stava facendo l’inquadratura, una deformazione professionale. Chi fa le domande è alla tua destra, chi risponde alla tua sinistra, quindi il mio faccione in teoria dovrebbe occupare la metà a sinistra del display. Ma meglio non indagare. Non capita tutti i giorni di essere scelto da un gruppetto di liceali per un’intervista sui cambiamenti della società tra la generazione dei loro genitori e i sedicenni di adesso. In effetti potrei essere padre di un sedicenne anziché di una ottenne, ma non è qui che volevo arrivare.

Si sa, parlare di se stessi fa sempre piacere, addirittura ci sono folli affetti da egotismo che passano ore a scrivere i propri pensierini e a pubblicarli on line nella speranza che qualcuno li legga. Quindi quando il gruppo di ragazzi mi ha fermato in pausa pranzo per chiedermi se avevo tempo e voglia di prestarmi alle loro attenzioni, ho fatto finta di schermirmi e poi ho accettato, strappando la promessa di vedere il lavoro finale in cambio di un biglietto da visita. L’intervista è durata una ventina di minuti e non sto qui a raccontarvela. L’ultima domanda però è stata decisiva. “Pensa che le nuove generazioni siano in grado di occupare posti di potere, di responsabilità, di valore e utilità pubblica in futuro, come le precedenti?”. A quel punto ho passato in rassegna quel campione rappresentativo delle nuove generazioni, tenendo conto che si trattava di un pugno di compagni di classe di un liceo del centro di Milano. Li ho guardati a uno a uno, e spero che nel montaggio finale quel mio screening non venga tagliato, perché si tratta di un silenzio che prelude perfettamente a quanto ho risposto dopo. Me li sono immaginati medico, giudice, macchinista ferroviere, insegnante, meccanico, manutentore di aeroplani di linea. Me li sono figurati un po’ invecchiati nelle stanze dei bottoni. Magari impegnati in una campagna elettorale, e io e mia moglie (mia figlia no perché andrà a studiare e a lavorare all’estero) con la scheda in mano, mentre riflettiamo sul nome da scrivere, uno dei loro. Ho pensato a loro intenti a svolgere un’attività di responsabilità, e stavo per dare una delle risposte più negative della gamma delle risposte negative possibili del nostro linguaggio. Ma la colpa non è la loro, ma dei loro genitori, che sono più o meno miei coetanei. Quindi anche mia. “No”, ho risposto, “ma non perché non sarete all’altezza, piuttosto perché non ce ne sarà più bisogno”.

Lo so. Non vuole dire un cazzo, è stato un capolavoro di nonsense, una frase che non so come sia riuscito a partorire, in quel panico da prestazione misto alla paura di deludere il mio nuovo pubblico. Mi hanno sorriso tutti, come se avessi rivelato il vincitore del prossimo festival di Sanremo. Il ragazzo con la fotocamera ha ripreso ancora un po’, prima di spegnere, in modo da dare un peso dopo la risposta sufficiente a bilanciare quella pausa riflessiva che ha preceduto la mia esternazione. Se fossi ancora un fumatore, a quel punto avrei tirato fuori un pizzico di Old Holborn giallo, l’avrei avvolto in una cartina Ocb, rollando con perizia. Quindi avrei chiesto da accendere e me sarei andato, probabilmente su un pezzo così.

di dolore ostello

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E un bel giorno Berlusconi andrà da Napolitano, e il Presidente della Repubblica gli chiederà se si sente ancora in grado di rispondere ancora ai bisogni del paese, e Berlusconi gli rispondera sì, certo, ho ancora i numeri e il popolo è con me. E quando leggeremo questa notizia sul giornale, ci verrà da pensare che se la Costituzione permette una cosa così c’è qualcosa che non va. Perché tutti scendono in piazza, tutti escono dal Parlamento, tutti sono esasperati. E in effetti la nostra Costituzione un limite ce l’ha, ed è quello di essere stata pensata e compilata da donne e uomini, mentre oggi è interpretata da zoccole e magnaccia.

vecc

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Una volta me l’ero presa con il marito. Era poco che abitavo qui, mia figlia aveva qualche mese. E lui ricordo si mise a tagliare il prato del giardino con il tosaerba un sabato pomeriggio, poco dopo pranzo. Mia figlia stava dormendo nella culla, in una stanza proprio di fronte alla loro villetta a schiera. Diamine, gli dissi, lei che è pensionato perché non approfitta dei giorni feriali, quando siamo tutti al lavoro, per dedicarsi alla manutenzione della casa? Potrebbe fare tutto il baccano che vuole che so, di martedì pomeriggio, no? Finì così, qualche parolone, chiamo i vigili e vediamo a chi danno ragione, ma nulla di più.

In estate, come tutti, tengono la finestra aperta, ma con la tv sempre ad alto volume all’ora di cena, quei programmi che più ne indovini più alimenti la speranza di toccare il milione, la faccia onnipresente del gerriscotti di turno che si vede anche da qui sul loro schermo a non so quanti pollici. E poi quel vizio di parlarsi, lei alla finestra mentre mette su il soffritto alle nove del mattino, lui sotto che ha sempre qualcosa da fare con il garage aperto. Fa, briga, svita, pittura, ramazza, smonta, rimonta, cerca, trova. E lei che lo chiama ma lui ha la faccia dentro la cassetta degli attrezzi e non può rispondere, magari è anche un po’ duro d’orecchi. Allora grida il suo nome più forte, e lui risponde urlando, e così per ogni nonnulla. Per non parlare delle conversazioni al telefono. Lo faceva anche mia nonna: più l’interlocutore chiamava da lontano, più forte parlava per coprire meglio la distanza.

Poi però qualche mattina fa ho visto lei prestissimo, era ancora buio, infagottata nel primo freddo autunnale, in piedi davanti alla porta di casa. In mano una borsa di tela che traboccava di buste color esame medico. Radiografie, esami del sangue, quella roba lì. Lui, nel garage, stava accendendo l’auto. Non so che dei due stesse accompagnando l’altro all’ospedale, magari un semplice controllo. Ma la mattina non è fatta per le malattie, per il doversi curare, per la preoccupazione di rimanere da soli e di trascorrere gli anni successivi senza il coniuge da sgridare perché si attarda a trovare la vite giusta e si raffredda la minestra. La mattina è il risveglio, tutto funziona per forza, come da sempre. Da sempre sorge il sole, qui sopra da qualche parte. C’è tutto il giorno per trovare un’ora libera per sentirsi male quando si è in pensione, o per sentirsi tristi, con tutto il tempo che si ha a disposizione, magari nei giorni feriali quando gli altri sono al lavoro. Lasciare la propria villetta a schiera tenuta così con cura, con il prato perfettamente raso, prima dell’alba quando è ancora buio è una delle cose più deprimenti a cui riesco a pensare.

facciamo l’amore, facciamo la guerra

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Dopo la mela del capitalismo, la coscia della rivoluzione. Via.

la metà fisica

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Poi arrivi a un’età in cui sei perfettamente equidistante da due poli. Da un lato hai i genitori e la schiera di zii paterni e materni e i suoceri piuttosto anziani, o molto anziani, e dall’altra ci sono i figli piccoli. Ogni estremo con le sue peculiarità e sue esigenze, le sue domande, i comportamenti da assecondare e quelli da favorire, e tu sei lì in mezzo, in equilibrio su una fune. Perché nel frattempo ci sei anche tu, non dimentichiamolo, che devi vivere, sei nel punto più elevato della curva della tua esistenza. Puoi guardare tutto dall’alto dei tuoi valori massimi, hai il completo dominio del piano cartesiano sottostante. Ma c’è chi ti tira da una parte perché vuole attenzione. Chi ti tira dall’altra perché ha bisogno di essere compreso. E ciascuno esige il comportamento più appropriato. Alla fine il rischio è cedere al bipolarismo emotivo, ti spacchi in due metà perfettamente congruenti sul filo del presente, e non rimane che una linea su cui orientarsi per un mero avanzare lungo il proprio percorso. In teoria tutti i tuoi sforzi dovrebbero essere rivolti a chi risulta più vulnerabile, ai più indifesi. E non sempre sono quelli con meno anni. Ma non ci sono vie di fuga, la responsabilità a cui siamo chiamati non lascia scampo. E chissà, forse senza il riferimento di questi pesi bilanciati rischieremmo di schiantarci sull’asse delle ascisse.