Con una combinazione di tasti schiacciati simultaneamente per digitare la chiocciola dell’indirizzo e-mail (avete presente vero?) la moglie di un amico ha fatto sparire da Chrome tutte le password memorizzate nella cronologia di navigazione, qualche minuto prima di far cadere inavvertitamente (ma con danni irreversibili) sul pavimento un hard disk esterno contenente, oltre a vent’anni di mp3 scaricati, l’intero archivio fotografico e centinaia di giga di lavorazioni varie, l’unico file di Excel contenente le suddette password. Il mio amico, per non rimproverare la moglie, ha urlato ai quattro venti la sua rabbia spingendosi ai limiti della blasfemia. Prendersela con l’impalpabile è molto più costruttivo di un divorzio. Ma la cosa pazzesca è che, poche ore dopo, questo mio amico ha visto a teatro una struggente pièce sull’autismo e, al termine del monologo finale, ha singhiozzato in lacrime per dieci minuti abbondanti, rischiando di soffocare dalla commozione e ripristinando la naturale priorità delle cose. Siamo nell’età dei sentimenti contraddittori e questa sorprendente escursione emotiva non deve spaventare i soggetti a rischio. Speriamo non mi succeda mai.
a Milano
tram tram
StandardAlla fine poi qualsiasi atto reiterato più o meno alla stessa ora e più o meno tutti i giorni risulta, al nostro sopraffino modo di percepire le sensazioni, una routine o, per dirla con un giro di parole, una rottura di maroni. Ma forse sono io. Sarà che sono vecchio. Sarà che sono un depresso cronico. Sarà che intendo la vita come uno slalom speciale in cui non fai altro che scendere in picchiata rischiando l’osso del collo lungo una pista di neve sparata e ghiacciata con l’obiettivo di alternare spallate a una soddisfazione rossa e una soddisfazione blu. Alla fine dei primi tre mesi del mio nuovo lavoro sto purtroppo iniziando a stufarmi del fare il tragitto casa-scuola in automobile, cosa che fino a poco tempo fa trovavo persino romantica e se non ci credete leggete qui.
Il problema è che ho la radio sintonizzata su un’emittente che a quell’ora – come immagino tutte le altre stazioni radiofoniche – trasmette ogni giorno lo stesso programma che è molto divertente, per carità, ma che ogni tanto mi fa sentire Bill Murray intrappolato nel giorno della marmotta soprattutto per la sigla che non è “I Got You Babe” di Sonny and Cher ma si intitola invece “Il demone del tardi” (come il programma in questione su Radio Popolare) ed è di un cantautore che si chiama Maler. Ho capito qual è il fattore che mi fa rimpiangere i ritardi di Trenord: ogni mattina fanno sentire questa sigla per intero, il che costituisce un caso credo unico, considerando i tempi radiofonici.
La sigla di un programma, secondo il mio modesto punto di vista di ascoltatore, dovrebbe durare una decina di secondi. Dieci secondi di musica, così chi è sintonizzato capisce che il programma ha inizio, e poi via con la trasmissione vera e propria. Ne “Il demone del tardi” invece l’omonimo pezzo (e tra l’altro è una specie di roba alla Capossela e a me Capossela fa venire l’orticaria, ma questo è un altro discorso) dura due minuti abbondanti alla fine dei quali parte una seconda sigla e quindi finalmente (ancora un caso unico per i tempi radiofonici) la trasmissione decolla.
Così ho messo a punto un accrocchio per collegare il mio smartcoso all’autoradio (ho un modello che al massimo legge i cd con gli Mp3, pensate un po’) e cerco di alternare “Il demone del tardi” ai miei 64 giga di musica che porto sempre con me. Comunque no, stavo scherzando. I ritardi di Trenord non li rimpiango per un cazzo. Anzi, se siete pendolari dell’hinterland e state leggendo qui in attesa del treno successivo perché il vostro l’hanno soppresso così, senza un vero motivo, vi dedico “Il demone del tardi” di Maler affinché vi faccia, per una volta, arrivare in tempo. Domani, però, provate con l’angelo dell’anticipo.
Milano per principianti
StandardNon avevo mai visto uno spritz Campari servito in scodella. Costa dieci euro e considerando anche il ghiaccio dura due ore buone. Nel frattempo il rito dell’ape (nel senso dell’aperitivo o, per usare uno specchietto per allodole, l’apericena) si consuma come sempre. La prima sfida è tirarsi su dal divanetto inutilmente bassissimo. A metà scodella di spritz si fa fatica, l’alcool ti fa cacciare fuori tutto il sudore sulla camicia e così, seduto a poca altezza rispetto all’asfalto del dehors, il marciapiede rilascia senza pietà il calore catturato in una giornata di clima troppo estivo per essere alla fine di maggio. Da qualche uscita invisibile ai lati del caffè c’è un viavai di gente con il grembiule viola che porta verso il bancone una quantità smisurata di cibarie per accompagnare le consumazioni e, a differenza dei camerieri, sono tutti stranieri. Il sole sta tramontando e io ce l’ho di schiena e sento tutta la sua energia sul collo alla base della nuca. Non si capisce perché, nel tardo pomeriggio, i raggi raddoppino la loro potenza, forse siamo in una posizione in cui l’orbita è più vicina oppure è solo una sensazione perché, stando fermi, la pelle esposta resta sempre la stessa. Non sono solo al mio tavolo ma paradossalmente, considerando i miei trascorsi da fan dei The Cure, sono l’unico a non aver almeno un capo di abbigliamento nero. Magliette nere su pantaloni neri e birkenstock nere, una sorta di divisa di un tessuto che dev’essere pregiatissimo e così leggero da far risultare ininfluente il colore. La saggezza popolare impone il bianco per neutralizzare le radiazioni solari. A Milano la moda ha introdotto outfit esclusivi che ribaltano ogni legge naturale precedente. Vestiti costosissimi che vanno a sommarsi alla mutazione genetica di cui è stata oggetto questa gente. Non una goccia di sudore, non una chiazza umida sulle loro divise dell’opulenza intelligente, bio e a impatto zero. Agli incontri con altri adulti evito di indossare le mie t-shirt ironiche per non sembrare un adolescente irrisolto, ma ho scoperto solo dopo che il manuale “Milano e i milanesi per principianti” recita il contrario.
ben colti ai margini
StandardIl quartiere della periferia nord di Milano adiacente al paesello in cui abito soffre di tutti i disagi tipici degli estremi territoriali delle grandi città e costituisce la prova provata che la cura delle parti comuni e della cosa pubblica è unicamente a carico delle istituzioni. Se le istituzioni non arrivano così distanti dal centro, gli abitanti della periferia se ne guardano bene dall’essere collaborativi. I cittadini sostengono di pagare le tasse (io non ci credo) e pretendono una macchina organizzativa efficiente anche nel mantenere dignitosamente gli spazi pubblici. Il problema è capire il motivo per cui, quando gli spazi sono così lontani dal cuore della città, sia così complicato sistemare le cose (pulire, garantire la sicurezza, far rispettare dei parametri di decoro urbano) ma anche, dall’altra parte, comprendere il motivo per cui al cittadino costi così fatica impegnarsi per sopperire alle manchevolezze degli organi di competenza.
C’è però un aspetto che mi colpisce sempre, quando passo da lì. Malgrado i disagi di cui sopra e riconducibili al caratteristico degrado architetturale, alle condizioni delle infrastrutture, alla povertà di chi ci vive e a tutti i fattori conseguenti alla dimensione di un quartiere piuttosto popolare (scarsissimi valori di integrazione delle comunità di immigrati, tra di loro e con i nativi), la municipalità fa sentire la sua presenza per l’abbondanza di poster relativi a iniziative culturali (mostre, concerti, teatro) spesso molto di nicchia. Chiaro che non c’è nulla di male, anzi. Ho notato però che vengono pubblicizzate manifestazioni di cui in centro non trovo traccia. Non ho idea del criterio con cui siano individuati gli spazi per le affissioni, però l’impressione che ho è che nei quartieri centrali di Milano muri e pannelli siano presi d’assalto dalla pubblicità aziendale e che all’arte e alla cultura rimangano solo le briciole e le zone meno esclusive.
La mia speranza è che, malgrado tutto ciò che possiamo pensare, il target di questa cultura piuttosto di nicchia sia comunque appropriato. Ci saranno persone interessate qui in periferia? E se sì, più che a Milano centro? Non ho nessun dato a supporto di questa tesi, potrebbe essere una cretinata, quindi prendetela così, e se volete essere informati su mostre, concerti e spettacoli teatrali, fatevi un giro dalle mie parti.
bello il co-working ma non ci vivrei
StandardA Milano, che probabilmente è la città capofila in quanto a spremere le novità fino a quando l’eccesso non ce le rende ostiche (un elenco non completo comprende l’aperitivo rinforzato, il trasporto di cibo a domicilio in bicicletta, il concetto di all you can-qualcosa, i ristoranti finti-giapponesi, il pilates, lo street food, il car sharing, il giro-pizza e molto altro) – da un po’ di tempo a questa parte a ogni angolo di strada (in senso metaforico) c’è uno spazio per start-up e co-working. Ci sono anche realtà pioniere di questo genere di servizi che si stanno espandendo in tutta Italia e in tutta Europa con il loro modello che comunque è molto figo e avveniristico. Non è tanto la possibilità di usufruire di aree e strumenti che, altrimenti, comporterebbero investimenti inaccessibili alle nuove leve dell’economia. Il bello è l’ambiente a cui queste realtà danno vita.
Ne ho visitata una per lavoro qualche giorno fa e a chi viene dalle aziende tradizionali come le conosciamo noi che, comunque, siamo gente che non è impiegata all’anagrafe ma operiamo in settori dinamici e innovativi, danno l’impressione del parco giochi. L’età media delle persone che vi bazzicano potete immaginarla. La cosa paradossale è che al qualche centinaio di gente che occupa tavoloni e sale riunioni, cubicoli di vetro, spazi per convegni e aree ristoro con l’immancabile calcio balilla e i puff per svaccarsi nei momenti creativi, corrispondono altrettanti tentativi di impresa o poco meno. In apparenza nessuno è collega di nessuno o al massimo ne trovi due o tre che lavorano per lo stesso progetto. In realtà tutti sono colleghi di tutti in un gigantesco limbo del mercato che, anche se non darà i suoi frutti come speriamo, per lo meno trasmette la volontà di questa generazione senza speranza di ritagliarsi qualche speranza, inventandosi spazi propri in spazi presi a prestito e in affitto, dal momento che tutto il resto del mondo del lavoro è intasato da gente come me che a cinquant’anni fa ancora lavori degni di un neo-laureato e che – incrociamo le dita – non vede margini di miglioramento se non con una improbabile pensione intorno ai settantacinque. Sai come sarò creativo a settantacinque anni, ammesso di arrivarci vivo e in salute accettabile?
Nel piano inferiore di questo concentrato di talenti ho visto un paio di aule in cui si tengono corsi il cui contenuto, per me che vengo dall’economia del secolo scorso, è arabo. Ma i ragazzi che dentro ho notato destreggiarsi con i più svariati strumenti per fare progetti che poi non si concretizzeranno mai – almeno su questo pianeta – sembravano perfettamente a loro agio vestiti nel loro dress-code della precarietà che oggi non credo si chiami nemmeno più così. È un dato di fatto ormai, quindi una sicurezza, anche se non è la loro ma quella delle famiglie che gli pagano tutto questo. E non è un giudizio morale: sfido chiunque di voi a mandare allo sbaraglio del mondo della povertà i propri figli. Meglio stare pronti a tenerseli stretti a sé, questo lo dico per prepararmi meglio al destino.
La cosa da evitare per gli osservatori parziali che passano lì per caso, nel mio (di caso) per documentare la loro operosità finalizzata a dimostrare che l’impegno ce lo mettono e a far sentire in colpa me e quelli come me che abbiamo dato fondo senza ritegno alcuno agli ultimi spiccioli di presente, dicevo la cosa da evitare è osservarli alle prese con le stampanti 3D e il coding e la robotica e le community e il project management di tutto ciò e pensare che è tutto molto bello anche se non servirà a nulla, e scusate il pessimismo ma voglio fornirvi le mie previsioni. Su mille, uno diventerà il nuovo zuckercoso di qualcosa e beata lei/lui. Nove ci proveranno come quell’uno perché se lo possono permettere in qualche modo ma con scarsi risultati. A essere buoni, quaranta usciranno di lì bravissimi e pieni di voglia di spaccare che però verrà spenta nell’ambiente lavorativo in cui saranno impiegati, in mezzo a me e gente come me che avrà settantacinque anni e che, anziché sfogare gli ultimi pruriti in balera, sarà costretta ancora in ufficio e troverà superfluo tutto quell’entusiasmo scambiato per boria adolescenziale. Il resto farà tutt’altro, quello che per generalizzare definiamo consegnare cibo in bicicletta, cuocere cibo finto-giapponese e tutto il resto dei servizi che a Milano, anziché le cose serie, vanno comunque un casino.
la mia prima Stramilano, una piccola recensione
StandardSe non sei nato a Milano ma ci vivi da vent’anni ci sono alcuni esami propedeutici al conseguimento della milanesità a cui sottoporsi. Mentre per certi versi sono integrato al cento per cento, erano anni che rimandavo l’appello utile a diventare un podista (o come si dice oggi, soprattutto qui a Milano, un runner) milanese a tutti gli effetti: non solo correre a Parco Sempione, non solo allenarsi per le vie del centro con valori di polveri sottili da paura, non solo sperimentare a passo spedito quel mix di natura urbanizzata di periferia tra campi concimati di fresco e capannoni abbandonati, non solo svegliarsi alle cinque e mezza per spararsi dieci km prima di andare in ufficio con la nebbia e temperature polari. Tutta questa fatica bisogna poi trasformarla in profitto e risultati, altrimenti che milanese sarei, per questo il 2017 passerà alla storia come l’anno della mia prima Stramilano.
Faccio una premessa. Milano è ingiustamente penalizzata da un nome che poco si presta al suo utilizzo in hashtag perché facilmente riconducibile a pratiche dubbie: cose come #fotogramilano #riprendimilano #coloramilano #ispezionamilano, a seconda di come le sillabi da sempre mettono alla prova i social media manager locali chiamati a operare in ambito turistico e culturale. Stramilano è forse l’unica iniziativa milanese composta con il nome della città che fa eccezione, forse perché pensata in altri tempi o forse perché in altri tempi a dare i nomi alle cose erano persone con maggiore inventiva. Senza offesa per i copywriter contemporanei di grido come il sottoscritto, eh.
Comunque se volete partecipare alla Stramilano l’anno prossimo per la prima volta, quella da 10km non competitiva, qui potete trovare qualche dritta. Intanto fatevi trovare in Piazza del Duomo almeno un’ora e mezza prima della partenza. Io sono arrivato circa mezz’ora prima e mi sono trovato dietro a trentamila persone circa, con altrettante dietro di me, il che può essere interpretato come una triste metafora di quello che tocca ai milanesi nativi o importati, e cioè che siamo costretti a stare in coda anche per correre, oltre che per andare e tornare dal lavoro o a fare la spesa al centro commerciale.
Il primo quarto d’ora dallo scoppio di cannone che sancisce la partenza lo si percorre a passo d’uomo, quindi aspettate a dare il via all’app che utilizzate per registrare la vostra prestazione sportiva. Stessa cosa per l’arrivo: gli ultimi cinquecento metri si fanno camminando, si taglia il traguardo come un qualsiasi gruppo di pensionati che fanno camminata al mattino nei giorni feriali, e quindi scordatevi lo scatto finale, le ragazze in short che ti accolgono con il meritato ristoro o lo champagne e tutta l’iconografia delle imprese sportive. Se volete fare gli eroi iscrivetevi alla mezza maratona della Stramilano. A proposito: quando andate a ritirare la sacca nel tendone che gli organizzatori allestiscono in Piazza del Duomo nella settimana che precede la manifestazione, occhio a non mettervi in coda con quelli che partecipano alla mezza maratona perché ti sgamano subito che sei uno sfigato che fa la dieci km e sono pronti ad allontanarti in malo modo.
In mezzo, tra la partenza vera e propria e l’arrivo vero e proprio, più che una corsa non competitiva è una corsa a ostacoli/gincana perché come tutte le iniziative a cui non bisogna mancare c’è un porconaio di gente che corre, cammina, spinge di corsa passeggini, cammina con le bacchette, telefona, si sbraccia per cercare altre persone nella folla o procede con gli amici tutti in un’unica linea orizzontale, questo per dire che non bisogna partecipare alla Stramilano da 10km con l’obiettivo di fare una gara sportiva, anche solo con se stessi per battere un record personale, perché difficilmente si percorre una linea retta e bisogna essere agili a scavalcare chi corre più piano e a farsi da parte per lasciarsi superare da chi procede più velocemente.
C’è da dire però che correre in mezzo alla folla e con persone che vi accompagnano per portare a termine la Stramilano è molto bello. Io, per dire, corro sempre da solo con le cuffiette perché correre mi aiuta a riflettere. Invece oggi ho scoperto che fare due chiacchiere ogni tanto o ascoltare i dialoghi altrui distrae molto di più dalla fatica. I milanesi che corrono alla Stramilano parlano di cose da milanesi, a partire dal lavoro, dai problemi con i colleghi di lavoro, dalle opportunità di lavoro, dalle indicazioni su come raggiungere la loro sede di lavoro dal tracciato della Stramilano, cose così. Magari sono stato sfortunato io ma le donne e gli uomini che avevano la mia andatura e che ho preceduto e seguito per alcuni chilometri hanno affrontato questo tipo di argomenti. Volevo intervenire per dire la mia ma poi ho pensato che, a proposito di lavoro, ho davvero ben poco da dire.
Bilancio comunque positivo. Sono arrivato al traguardo per nulla provato, non vi nascondo che sono allenato a percorrere distanze più lunghe, divertito per aver fatto una cosa (e una corsa) da milanese e con l’impegno a far sempre meglio per iscrivermi alla mezza maratona della Stramilano nel 2018. Ma la vera sfida per chi corre la Stramilano consiste poi nell’affrontare il viaggio di ritorno dall’Arena a casa, sudato come un maiale e puzzolente (in questo sono certo di battere tutti i record mondiali) in metropolitana, compresso tra i cinquantamila partecipanti sudati e puzzolenti quanto te e qualche passeggero normale con i vestiti della domenica, che fa di tutto per evitare il contatto con quella massa di corpi bagnaticci.
tappi di plastica, un nuovo modello di business
StandardHo fatto la pratica della scuola guida su una Renault 5 che è una di quelle macchine che prima o poi torneranno in commercio, come è già successo per la Cinquecento e come succederà per la R4, la Due Cavalli, la 127, la Dyane 6 e il Maggiolino come l’abbiamo conosciuto noi, non come quella specie di 313 dai colori inesistenti in natura – appannaggio di fighetti e calciatori – che si vede in giro da qualche anno. Vedo spesso una Renault 5 di quel colore che avevano tutte le Renault 5 parcheggiata nei pressi della stazione del passante di Porta Vittoria, lo stesso in cui sfondano i vetri delle auto ogni due per tre. Ma i finestrini della Renault 5 non credo che temano per la loro incolumità. Nessuno ruberebbe una Renault 5 e se vedeste quello che contiene, le volte in cui contiene qualcosa, capireste il motivo. La Renault 5 che vedo io a volte ha lo schienale dei sedili posteriori reclinato e il vano che risulta dall’unione con il bagagliaio è occupato da sacchi di nylon enormi, pieni fino a scoppiare di tappi di bottiglie di plastica.
Avrete anche voi un parente, un amico, un vicino di casa o un collega che raccoglie tappi di bottiglie di plastica da donare poi in fantomatiche iniziative di beneficenza, associazioni del no-profit e volontariato. In rete ci sono diverse spiegazioni e mi pare che la fondatezza della cosa sia provata, ma non vi nascondo che, visto il proliferare dell’attività, all’inizio mi aveva causato qualche dubbio. Sembrava più, infatti, una leggenda metropolitana, quelle cose che si estendono a macchia d’olio fino a quando assurgono a verità con uno status di fondatezza visto che lo fanno tutti, un po’ come, ancora a proposito di plastica, le bottiglie piene d’acqua per tenere lontani i cani dalla proprietà privata.
Ma separare queste e tutte le bottiglie di plastica dai loro tappi impedisce di comprimerle adeguatamente per risparmiare spazio nei contenitori della riciclata in casa, lo se che non è un problema insormontabile ma sotto al mio lavandino ora più di tre bottiglie stappate da due litri non ci stanno e occorre fare più viaggi per sbarazzarsene, mentre con il tappo si possono comprimere e accartocciare, questo perché mettere da parte i tappi di plastica è una pratica comune anche in casa plus1gmt.
Non c’entrano niente, invece, le operazioni di sicurezza prima dei concerti, quando gli addetti grandi e grossi e spesso con look poco raccomandabili ti strappano il biglietto e ti fanno entrare solo con bottiglie di plastica a cui hanno rimosso e gettato via il tappo oppure le bevande nei bicchieri e, anche in questo caso, su Internet c’è tutta una letteratura a proposito ma con la quale non tutti sono d’accordo. E se avete un minimo di spirito imprenditoriale eccovi servito su un piatto d’argento un nuovo business: vi piazzate all’ingresso dei concerti con i sacchi da riempire dei tappi, separati dalle bottiglie e requisiti a chi vuole entrare, da vendere poi al proprietario della Renault 5 di Porta Vittoria con il quale, se non lo conoscete, posso fare io da intermediario così magari è la volta che ci guadagno qualche cosa.
anche i nostri nomi sono scritti da qualche parte
StandardAlcuni hanno il loro nome scritto in faccia, altri no ma c’è sempre un particolare da cui evincerlo, a partire da quando è stampato sulla costa del book fotografico personale che ostentano in mano nel caso in cui costoro operino nel settore della moda e siano a spasso per Milano tra un casting e l’altro. Non so se sia una posa, quella di tenerlo alla mercé dei curiosi come me, oppure si tratta di un formato così anomalo che non esistono borse o valigette adatte a contenerlo. Fondamentalmente ne esistono di due tipi: quelli con la copertina nera, decisamente anonimi e imperscrutabili, e quelli con la copertina bianca con le generalità della modella o del modello stampati in oro sul dorso, e la cosa buffa è che spesso modelle e modelli a spasso per Milano tra un casting e l’altro vestono davvero male, forse con l’obiettivo di confondersi tra le persone normali ma a volte sono così conciati che basta guardare meglio e scorgere il book fotografico in mano o sotto l’ascella come una baguette per capire tutto. Ieri ho notato Polina salire le scale della metro con il suo book fotografico bianco nell’incavo del braccio e ho dato un’occhiata al nome stampato sulla costa proprio perché il suo outfit era decisamente fuori luogo, o magari la moda impone uno standard che dal basso della mia umile estrazione non si percepisce. Il contrasto ha attirato la mia curiosità ed è per questo che so che si chiama Polina, con un cognome russo che non riporto per ovvi motivi di rintracciabilità dei motori di ricerca. Ho superato camminando Polina e, oltre al look e al book fotografico bianco bene in mostra, ho anche valutato che non sembrasse così alta per fare la modella e, a dirla tutta, a coplo d’occhio non era nemmeno così attraente. Ed è per questo che, appena arrivato in ufficio, ho subito guglato nome e cognome e, come primo risultato, mi è comparsa una pubblicità per un brand super di lusso tra i più famosi del mondo proprio con la faccia di Polina, questa volta incantevole come dev’essere il viso di una modella. Non ho esitato a cercare il suo profilo Instagram per seguirlo e chissà se tra le decine di migliaia di followers ci ha fatto caso. La morale della storia non la so, forse sarebbe meglio essere meno curiosi e fottersene delle modelle a spasso per Milano tra un casting e l’altro.
siete tutte così belle a Milano?
StandardFare la corte è un comportamento che apparentemente non necessita di grande sforzo perché, spesso, è indotto da una sorprendente naturalezza. Ieri mattina sono entrato nel portone per salire in ufficio preceduto di qualche metro dalla donna che lavora nell’agenzia al piano di sotto, che ha percorso l’ingresso con le sue ampie falcate – è alta come me – e con un casco da motociclista in testa. Il fabbro che stava armeggiando al cancello del cortile per sostituirne la serratura non si è lasciato sfuggire il portamento e le ha detto “Siete tutte così belle a Milano?”. Lei, senza fermarsi, gli ha risposto un secco ma compiaciuto “Ha visto?”. Messa così l’attrazione risulta davvero un gioco da ragazzi, anzi, un gioco tra ragazzi. Altro che quelli che pensano che sia il risultato di una somma di parti, nel senso di parti del corpo altrui. I capelli così, gli occhi cosà, il seno e le gambe e il fondoschiena nemmeno fossimo carne pronta a essere servita al banco macelleria all’Esselunga. E poi vogliamo parlare di certe smancerie o, peggio, della timidezza nel dichiararsi? Per dire, io e Susanna non ci siamo mai salutati, nessuno ha preso l’iniziativa ed è finita come è finita. Chissà cosa penserà di questi approcci diretti il fabbro in questione tra trent’anni, quando nei giorni di festa rifletterà sul piacere di svegliarsi per primo, in anticipo rispetto ai figli e alla moglie che magari sarà davvero la donna che lavora nell’agenzia al piano di sotto. Magari ieri è tornata giù portandogli un caffè e un biglietto da visita, poco romantico ma più efficace rispetto a un post-it con il numero di telefono scritto a penna ma a Milano, dove probabilmente davvero le ragazze sono tutte così belle, funziona così.
la lista definitiva delle auto più in voga tra gli anziani (me compreso)
StandardUna delle più note e storiche riviste nazionali dedicate al mondo dei motori e alle quattro ruote (metonimia che mi guardo bene dallo scrivere senza lo spazio nel mezzo proprio per evitare querele o qualunque rimostranza dai diretti interessati) ha pubblicato la classifica definitiva delle auto più in voga tra gli anziani. Ci vuole poco e potete farlo anche voi in auto-nomia (questa è sottile ma spero l’abbiate colta tutti, vero? Dai, ho messo persino il trattino proprio per far notare la battuta), basta mettersi sulla strada oggi che è domenica e, armati di una qualsiasi app oppure del vecchio sistema della carta e penna, contare quanti e quali modelli vedete che rallentano il traffico e il gioco è fatto.
Certo, un esperimento più completo comporterebbe una casistica anche del sabato, quando coppie di veterani della patente già dalle prime ore del mattino si cimentano nella guida verso la società giovane e dinamica che si gode a tutta velocità il meritato giorno di riposo.
Comunque, per farla breve, anch’io mi sono messo a compilare questa sorta di statistica e vi dico che le auto più in voga tra gli anziani sono le intramontabili Fiat Punto, le Ford di qualsiasi foggia e colore, la nuova Citroen Picasso di quel giallo oro che, vista all’alba, è facile scambiarla per il sole che sorge e, a prova che tra gli anziani mi ci metto anch’io, la mia auto preferita che è la Volkswagen Touran grigia, che appartiene a una fascia di prezzo superiore alle altre (non a caso non me la posso permettere almeno fino a quando non riuscirò a trarre qualche profitto da questo blog, ma se continuo a farcire i miei post di tutti questi incisi tra parentesi dubito che a qualcuno gli venga voglia di investire nella mia perizia di scrittore) e infatti gli anziani che se la comprano oltre a essere più abbienti degli altri e di me sanno per certo che si tratta di una vettura per sempre, sapete quello che si dice sulla tecnologia tedesca (e questa, inutile dirlo, è una captatio benevolentiae bella e buona per i social media manager della Volkswagen, che possono rintracciare il mio post e segnalarlo ai loro datori di lavoro, non si sa mai che ci esca una sponsorizzazione con una Touran anche usata, non è un problema, potrebbe però essere una strategia di street marketing vincente).
Detto ciò, e spero di non aver offeso nessun proprietario delle auto citate o qualche giovane che, invece, ha acquistato una di queste proprio per sentirsi giovane, a chi non è mai capitato di aver fretta e di trovarsi un ottantenne a bordo di una Punto, una Ford qualsiasi, una Picasso color oro o una Touran davanti ai quaranta all’ora? Mentre i giovani si sfidano a battaglie di arrivo prima io al casello, e so per esperienza che c’è gente che va persino alle mani per lavare onte di questo tipo, mentre i padri di famiglia anziché lavare le onte lavano i loro SUV agli autolavaggi di periferia, mentre le giovani maestre elementari trovano parcheggio ovunque con le loro Smart (ciao Stefania), i futuri anziani come me che fanno le cose che si fanno in macchina il sabato mattina sono costretti a rallentare il loro piano di cose da fare il sabato mattina proprio a causa delle Punto, della Ford qualsiasi, delle Picasso color oro o delle Touran con coppie di anziani a bordo che si trovano a quaranta all’ora sullo stesso tragitto.
A me piacerebbe così accelerare, superare l’auto che va ai quaranta all’ora in questione, costringere l’ottantenne a fermarsi, scendere dalla macchina, chiedergli di abbassare il finestrino e, in modo molto pacato, spiegargli che non dovrebbe andare così piano, che a Milano c’è un sacco di gente che va di fretta e che lo so che è sbagliato ma che purtroppo è così. Gli direi che dovrebbe pensare di più agli altri, a quelli che è facile scorgere in coda dietro di lui con una semplice occhiata verso lo specchietto retrovisore, che mettersi in mezzo e non lasciare spazio è un comportamento che non va bene perché è un po’ egoista e capisco tutto, anche che è bello prendere la macchina il sabato e la domenica mattina ma diamine, durante gli altri giorni della settimana quando le strade di periferia come quelle sono deserte perché alle dieci del mattino siamo tutti al lavoro non è forse meglio organizzarsi per concentrare lì tutte le scorribande a quaranta all’ora e, al massimo, rallentare i mezzi che puliscono le strade?