che razza di gente

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Nel mio quartiere non si sente più una parola di italiano ed è un peccato, perché fino a qualche mese fa era l’ultimo baluardo contro l’assalto alla metropoli e si viveva bene. La nonna di Elena quando esce la domenica mattina presto per andare a messa si sente a disagio perché c’è ben poca gente in giro e ha l’impressione che gli stranieri che ciondolano davanti ai loro ritrovi non siano mattinieri ma debbano ancora coricarsi e lei, sola con la sua borsetta, un po’ di paura ce l’ha. Resta il fatto che nulla metta a disagio come sentirsi in minoranza tra gente di altri paesi e non capire una parola. Seguendo il trend delle aree periferiche, anche qui gli svedesi pian piano si sono comprati la maggior parte degli esercizi commerciali e ora vendono le loro cianfrusaglie probabilmente senza pagare nemmeno una lira di tasse allo stato. D’altronde siamo i primi, noi benpensanti, a ricorrere alle loro botteghe quando ci si rompe qualcosa e vogliamo spendere meno o anche solo per buttare via un paio di euro per una cover dell’iPhone. I finlandesi hanno il monopolio dei chioschi di carne di renna arrostita che poi chissà in quei pezzi che rotolano sullo spiedo cosa c’è dentro. Norvegesi e danesi invece continuano a sfidarsi con le loro gang di ragazzini che fanno paura pure a me. Con le loro facce slavate e i loro capelli così chiari che sembrano trasparenti incutono un certo terrore e di questi tempi, con tutti questi europei del nord in giro con i coltellini svizzeri, c’è poco da stare tranquilli e l’ultimo mestiere che ti viene in mente di fare è il controllore sui mezzi. A dimostrazione però che siamo noi italiani i primi ad avere grosse responsabilità su questa invasione, spiegatemi il senso della moda che hanno i negozi di abbigliamento da un po’ di tempo a questa parte di avere sulla porta il buttafuori vichingo vestito di tutto punto che poi, con la verve che hanno nel lavorare, li voglio vedere a cogliere un taccheggiatore in flagranza di reato. Che cosa gli fanno? Gli danno il cinque fratello e gli mettono in mano una delle loro riproduzioni del bue muschiato in legno o uno di quei libretti di poeti eschimesi che non li legge nessuno?

buongiornissimo col morto

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Non c’è differenza tra farsi una corsetta la mattina presto, in inverno, e farla in piena notte, tranne che nessuno si darebbe all’urban running (una definizione molto di moda, non me ne vogliate) in piena notte. Ma se non fosse per un problema meramente di posizione delle lancette dell’orologio, il freddo poco invogliante e, soprattutto, la luminosità sono le stesse. Ma la similitudine non finisce qui. Se uscite per un lungo prima dell’alba la domenica mattina, come ho appena fatto io, è facile imbattersi negli strascichi del sabato sera che per alcuni è ancora in vigore e se non fosse che chi pratica sport si è appena buttato malvolentieri giù dal letto potrebbe porsi il dubbio di aver puntato male la sveglia o farsi la domanda “sogno o son desto”. Gruppetti di ragazzini che si rollano l’ultima canna in piazzetta prima di consumare la colazione. Amici ubriachi che si consolano seduti sui gradini dei negozi chiusi. Bottiglie di birra lasciate a metà alla fermata del tram. Discotecari probabilmente sotto l’effetto di qualcosa di forte – ma che sta scemando – che si dimenano a un ritmo tutto loro sparato dall’autoradio della macchina con le portiere spalancate, questo è un classico comune a tutte le generazioni di amanti della musica. Se il vostro percorso prevede anche zone verdi come parchi o sentieri di periferia, capita che qualche animale notturno ti tagli la strada. Qui da noi i leprotti, mi è sembrato persino di vedere una volpe, una volta, ma era buio e forse era poco più di un gatto. Non mancano gli animali morti, prede di predatori di città e non. Ma è facile anche imbattersi nei postumi di gesta ai limiti della legalità. Borse gettate nei cestini dell’immondizia dopo esser state ripulite delle cose di valore a valle di uno scippo. In una specie di fossato che costeggia un sentiero qui vicino ho visto tempo fa tre console da video-poker gettati lì e sventrati della cassa. Un paio di settimane fa un’utilitaria era finita nel centro di una gigantesca aiuola alberata e i due balordi alla guida giustificavano a fatica la correlazione tra il loro tasso alcolico e l’accaduto a una pattuglia dei Carabinieri. Fino a stamane, quando sono stato testimone dell’apoteosi. La voce di omone che gridava “Io ti uccido! Ti uccido!” a qualcuno. Me lo sono immaginato grande, grosso, pelato come un naziskin, con il collo di un cingalese mingherlino stretto tra le mani, chissà perché. In verità non ho assistito alla scena. Stavo procedendo per la mia strada, ascoltavo buona musica, ho sentito le grida e messo un pausa la canzone. Le urla provenivano dietro l’angolo verso il quale stavo per girare, ma poi ci ho pensato e me ne sono guardato bene. Ho fatto immediatamente dietro-front sperando di incontrare qualcuno per farmi forza, ma poi per fortuna è sopraggiunta la Polizia a sirene spiegate, mentre intorno ormai era tutto chiaro, e il sole da qualche parte sopra alle nuvole che stanziano sempre a loro volta sopra a Milano era sorto.

per brevità Milano

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Stamattina ho accompagnato mia figlia a una lezione aperta in uno dei ginnasi che sta valutando come prosieguo degli studi. Il liceo si chiama Tito Livio ed è così in centro a Milano che lì a due passi ci sono i ruderi del circo romano, c’è una via di quelle che almeno una volta a fare shopping ci si deve andare, ci sono le fermate della metro con i nomi più famosi che sanno persino quelli che non sono di Milano, c’è il pavè e ci sono le scampanellate del tram. La lezione è durata due ore, era di greco e il prof, a quanto mi ha riferito mia figlia, era molto simpatico. Eravamo piuttosto emozionati entrambi e il perché è facile da intuire. Io l’ho lasciata all’ingresso e ho cercato di non commuovermi vedendola seguire il resto dei ragazzi che erano lì per lo stesso motivo. Ho pensato così di chiudermi in un bar a lavorare ed è così che ho scoperto l’Ostello Bello. Ho ordinato un cappuccio, mi sono connesso al loro wi-fi e mi sono sentito proprio nel centro di Milano, con i ragazzi stranieri ospiti della struttura che scendevano al bar a fare colazione, i gestori con il loro inglese impeccabile, il locale elegantemente scazzato come dev’essere un posto di quel tipo. Un insieme di fattori che mi ha fatto persino dimenticare la tensione, tanto che le due ore sono volate proficuamente. Mentre poi rientravamo verso casa e mia figlia mi raccontava qualche dettaglio di quell’esperienza che non avete idea di quanto la invidi, pensavo al fatto di vivere a poco meno di un chilometro ai confini con Milano e che per questo, a chi mi chiede dove abito, rispondo per brevità Milano. A mia figlia lasciamo la totale libertà di scegliere il liceo che preferirà solo a patto che la sede, qualunque essa sia, sia ubicata a Milano e non in provincia. Su questo aspetto siamo irremovibili, in modo che, a chi gli chiederà dove va a scuola, non abbia bisogno di omettere nulla.

quando arrivano le modelle

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Qui in via Compagnoni ci dev’essere uno spazio o un qualcosa che ha a che fare con il settore della moda perché, quando Milano è fiaccata dalla Fashion Week – che poi non ho ancora capito quante settimane di questo tipo all’anno ci sono perché, a differenza di altre iniziative come la settimana santa, mi sembra che capitino più volte – dicevo che nel periodo in cui Milano è fiaccata dalla Fashion Week organizzano degli eventi, e quando esco dall’ufficio mi imbatto in una ressa che nemmeno sotto l’albergo che ospita le popstar in tour. Probabilmente si tratta di sfilate oppure qualche stilista che presenta la sua collezione, ma questo non giustifica l’assembramento di curiosi, appassionati o gente comune. Comunque è facile capire che c’entra con la moda dalla presenza di giapponesi vestiti in modi assurdi con macchine fotografiche del valore pari al mio RAL e fashion blogger inutilmente appariscenti e magri.

La zona poi si riempie di NCC che con i loro multivan parcheggiati in doppia fila intasano le vie adiacenti, considerando che occupano un volume che è il doppio di un mezzo normale. Scaricano le modelle, una per vettura il che la dice lunga anche sull’impatto ambientale di quella messinscena, e poi gli autisti – conciati come boss della camorra – fumano una sigaretta dopo l’altra aspettando che l’evento finisca. La gente che ingombra i marciapiedi e anche parte della via all’altezza dell’ingresso della location si mette in punta di piedi per accorgersi in tempo utile se c’è qualcuno o qualcosa che meriti di essere osservato.

Ognuno di noi ha i suoi preconcetti su una cosa o sull’altra, e se devo essere sincero a me tutto il battage e l’entusiasmo sull’alta moda mi è sempre sembrato sovradimensionato. Mi preme però aggiornarvi sul mio outfit nel momento in cui ieri ho attraversato quella folla di fans dell’abbigliamento: indossavo una polo Carrera rigorosamente a righe orizzontali acquistata al reparto vestiti dell’Ipercoop, pantaloni Esprit modello cargo con i tasconi collezione Banlieue 2006, sneakers Gola bianche e verdi numero 47 pagate 19 euro ai saldi dei grandi magazzini Bossi di Saronno. Malgrado questo, uno dei fotografi giapponesi è sembrato interessato alle mie scarpe se non altro per la dimensione e l’effetto del bianco ottico dovuto alle pozzanghere in cui ho camminato e che le hanno pulite come nuove.

Mi sono fermato solo per osservare un taxi che non riusciva a portarsi di fronte all’entrata, a quel punto tra auto e gente era tutto bloccato. Si è aperta la portiera posteriore ed è scesa una modella a dir poco spaziale. Il veterinario che ha lo studio proprio lì di fronte stava però conversando con una cliente e lo sentivo raccontare di rimedi di altri tempi ma non per animali. I trattamenti casalinghi della nonna, in pratica. Ho vaghi ricordi del bicchiere poggiato sulla pelle con la candela accesa dentro che consuma l’ossigeno per non so quale disturbo, o quelli che chiamavamo “fumenti”, che consistevano nel respirare vapori con l’asciugamano in testa, fino a un sistema radicale per debellare la tosse: si tagliava un pezzo di ramoscello di sambuco, lo si svuotava del midollo, si riempiva di camomilla e poi si fumava. Facevo le medie e non vi nascondo che con gli amici quello era uno dei divertimenti più in voga. Così, prima di allontanarmi da quell’assembramento da cui mi sono dissociato immediatamente, ho cercato di ravvisare qualcuno che camminasse “come un terza base”, è una cosa che ho appena letto in un libro di DeLillo e che mi piace tantissimo ma secondo me è un tipo di similitudine che, qui da noi, non funziona.

rispondere alla sgarbataggine con del jazz modale

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Se pensate che non sia nella natura umana fare così tanti chilometri al giorno provate a parlare con chi, di mestiere, gira Milano in lungo e in largo in bici, con il bello e cattivo tempo, a fotografare i pezzi di città più poetici. Per capirci, qual è il limite superato il quale considerate d’obbligo fermarvi, fare una pausa, chiedere il giorno successivo di riposo? Non sono del settore, così rivolgerei la domanda per sicurezza a chi fa l’insegnante di scuola guida. Ieri pomeriggio sono entrato in un bar e visto che siamo a metà settembre ma, dal caldo che fa, non si direbbe, ero talmente a secco di liquidi che ho chiesto la cosa più dissetante esistente in commercio. Ho detto proprio “prendo la cosa più dissetante che ha”. Nessuno ha osato proporre la birra e così mi sono fidato del barista che ha aperto il frigo con una piroetta e mi ha stappato una Lemonsoda sotto ai miei occhi.

Sono uscito così a berla sotto una tenda di un brand molto più alcolico di quello che stringevo in mano ed è lì che ho notato una Twingo di una scuola guida ferma poco più avanti. Una ragazza bionda, seduta al volante, si rivolgeva con un tono tutt’altro che gentile all’uomo al suo fianco puntandogli persino l’indice contro come se l’istruttore fosse uno di famiglia o si trattasse di una questione privata, più che una discussione sul modo più consono per affrontare una rotonda nell’ora di punta. Se fossi stato in lui avrei risposto a così tanta sgarbataggine con del jazz modale. Ma, a parte noi protagonisti di questo frammento di fine estate, tutto intorno non si vedeva altro che insegne di botteghe palesemente ispirate all’estremo oriente. Il barista mi ha raggiunto fuori e, notando il mio stupore verso quella densità di popolazione non autoctona – non mi trovavo in un luogo abituale -, ha colto il mio stesso pensiero ma lo ha espresso in un modo in cui io mai mi sarei sognato. I cinesi sono i nuovi schiavi della società, così mi ha detto, perché sono gli unici in grado di adattarsi a fare qualunque cosa, a qualsiasi prezzo in qualsiasi condizione. Il tempo di finire l’ultimo sorso della bevanda (che dovevo ancora pagare) che un uomo vestito di tutto punto, persino con addosso un giubbotto, si è intromesso mentre il barista ed io chiacchieravamo, correndo dietro al suo cane tenuto al guinzaglio. Se l’animale fosse stato libero si sarebbe trattato sicuramente di un inseguimento, ma così aveva tutta l’aria di un atto volontario. Non so se è l’intenzione di scrivere qualcosa a proposito di questo che mi ha fatto per la prima volta sentire onnipotente, prima o poi queste piccolezze la finiranno di saltarmi addosso per essere raccontate ma, nel frattempo, mi sento capace di descrivere tutto.

stramilano

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C’è una Smart di un operatore di car sharing parcheggiata sotto il mio ufficio con una vistosa scritta “bella lì mi sposo”, in blu sulle portiere bianche. È il momento dell’uscita dal lavoro che in generale riserva le sorprese più pittoresche, per non parlare dell’uscita dal lavoro del venerdì, in cui si notano di sovente cose che voi umani durante la settimana dei giorni feriali non potete nemmeno immaginare. Penso a come dev’essere bello guidare un corteo nuziale con la sposa a fianco, a bordo di una vettura ecologica e pensata per una città sostenibile dal punto di vista ambientale e, dietro, la colonna di amici e parenti che strombazzano gioiosi con il clacson per le vie del centro. Se c’è un auto con quel tipo di messaggio stampato è perché probabilmente qualcuno ci avrà già pur pensato a un matrimonio così eccentrico, ai tempi dell’Internet essere originali è impossibile. E scommetto che si usa anche sposarsi in bici, che è una scelta ancora più radicale dal punto di vista ecologico, chissà quante nozze cosi avrete già visto a Milano. Comunque le strade del quartiere dove è il mio ufficio – siamo in zona corso 22 marzo – sono quasi vuote e tutto intorno c’è quella luce che si vede solo a fine estate e che non ha eguali. È una zona di Milano piuttosto elegante e tenuta a regola d’arte, come quasi tutto il centro, del resto. Non faccio in tempo a fantasticare un po’ su questo genere di cose che una nutrita compagnia di danza popolare centroamericana attira la mia attenzione, e come non potrebbe. Li osservo provare un ballo di gruppo con tanto di musica e costumi originali sfruttando gli spazi sovradimensionati ubicati sopra ai binari della stazione di Dateo. Mi fermo a studiarne le movenze e sorrido sperando che qualcuno di loro noti il mio sorriso solidale, ma è chiaro che sono troppo impegnati a fare attenzione ai passi corretti.

Il punto è che io non posso certo dire “la mia Milano” come fate voi milanesi, quando questa città mi sorprende come oggi. Intanto non sono né nato né cresciuto qui e poi abito persino in un paese limitrofo e a una manciata di metri da Milano, che però non è Milano. Ma lavoro qui più o meno in centro e qui più o meno in centro trascorro la maggior parte del mio tempo. La mattina lascia un po’ a desiderare ma ci sono i papà e le mamme con i bimbi per mano che la nobilitano. Alle sei del pomeriggio invece Milano è bellissima, e se non ci credete vediamoci qui così ve lo dimostro. Quindi posso dirlo: non sono nato qui ma non credo che me ne andrò mai da Milano, con tutte le opportunità che mi ha regalato. Posso dire che è anche la mia città, perché da nessun’altra parte mi sono mai sentito così.

enoizacifirtneg, il termine che definisce il contrario di gentrificazione

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Il mio amico Vincenzo ha un cognome che finisce per zeta di chiare origini spagnole ma è siciliano, è l’unico delle medie che poi ha fatto l’alberghiero ed è riuscito a diplomarsi e, anche se non gli avresti dato due lire, dopo la maturità ha fatto armi e bagagli e si è trasferito a Dubai dove è diventato un cuoco italiano di quelli strapagati. Proprio un paio di sere fa ho sentito alla tv il trailer di uno show in cui ci si chiedeva “cosa succede quando lo Chef Cannavacciuolo entra nella cucina sporca e disordinata” e ho pensato a chi potrebbe essere interessato a sapere come va a finire.

Comunque il mio amico Vincenzo sembra essere passato alla storia perché all’alberghiero si era messo con la più bella della scuola, exploit che aveva dato speranza a tutti. E proprio lei, la più bella di quella scuola ora è in pausa sigaretta dopo la pausa pranzo in Via Pisani a Milano, davanti all’ingresso della KPMG, la nota multinazionale di consulenza professionale alle imprese in ambito manageriale, fiscale, legale e amministrativo. Se conoscete quel tratto di Milano, quello che va dalla Stazione Centrale a Piazza della Repubblica, saprete che rappresenta il teatro più evidente in cui si consuma una sorta di gentrificazione al contrario perché vige in modo sempre più innegabile la commistione tra la popolazione business che lavora lì – ci sono le sedi di banche e multinazionali come la KPMG dell’ex fidanzata di Vincenzo – e i numerosi homeless che hanno preso domicilio con le loro cose sotto i portici di Via Pisani.

Dal punto di vista della popolazione business che, malgrado i 38 gradi mentre passo di lì veste ancora in tailleur e in completi in giacca e cravatta con taglio molto slim, il termine che definisce il contrario di gentrificazione è imbarbarimento o degrado, soprattutto da quando insieme ai senza dimora locali si sono aggiunti i profughi, alcuni dei quali sfoggiano ancora il telo sberlucciante che gli è stato dato al momento del soccorso.

Il contrasto è ancora più forte perché tra gli ingressi delle multinazionali e delle banche ci sono locali fighi presi d’assalto dalla popolazione business a pranzo che ne approfitta per veloci riunioni di lavoro. Si vedono colleghi che abbozzano business plan sulle tovagliette piene di pubblicità mentre, a pochi metri dalle chaise longue già pronte per l’apericena, un africano consuma un pasto da un sacco del McDonald’s‎ raccolto dalla spazzatura direttamente da lì, mentre i camerieri, la maggior parte di origini africane ma dal destino diverso, girellano tra i tavoli per raccogliere i piatti di chi ha finito l’insalatona.

Poco più in là di dove la più bella dell’alberghiero ha già spento la sigaretta c’è la postazione di un homeless che dev’essere più stanziale degli altri perché si è allontanato chissà dove però lasciando, in modo ordinato, le sue cose. Come se avesse rifatto il letto e la stanza di un albergo. Ha un materassino di risulta coperto da un telo leopardato in ciniglia che chissà dove l’ha preso e una borsa del Carrefour da cui spuntano delle cianfrusaglie. Quindi quando pensiamo ai quartieri poveri che si riempiono di artisti e intellettuali in cerca di chissà che cosa, chiediamoci anche della diffusione di fenomeni come questo, così ci portiamo avanti per quando qualcuno, prima o poi, avrà da ridire.

camminare è un piacevole diversivo quando occorre recarsi a un appuntamento e non se ne ha voglia

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La città è piena di divieti e se è un peccato non lo diciamo perché siamo pervasi da uno spirito anarcoide che ci induce a un atteggiamento ostile nei confronti di ciò che è vietato. È un’occasione mancata per chi scopre che camminare sia un piacevole diversivo quando occorre recarsi in un luogo o ad un appuntamento e non se ne ha voglia. Muoversi a piedi è alla base del modo di viaggiare più antico del mondo, se è così appagante un motivo ci sarà. Si dilata il momento in cui si arriva a destinazione e ci si ritaglia una micro-vacanza lungo territori urbani che, se vivete in una metropoli, magari non avete mai osservato da vicino. Ma basta fare attenzione alla densità di presenza di segnali e comunicazioni di divieto a interrompere tutta questa poesia. Dobbiamo biasimare il genere umano per questo? Vivere tutti insieme in mezzo a cose di tutti e private impone l’uso di regole e, lasciatevi servire, più ce ne sono meglio è. Ma poi vedi i cartelli e i segnali, ce n’è uno ogni metro, non fare questo o non fare quest’altro, di qui o di là, tu si e tu no, stai fermo e muoviti, prima loro poi te, stai attento e guarda dove vai, entra ed esci, dicevo che vedi i cartelli e i segnali e capisci quanto siamo costretti a mantenere il controllo, a riflettere, a ponderare, ad anteporre l’intelletto, a lasciarci guidare da una volontà invisibile ma condivisa. Per fortuna ci sono i balconi e i davanzali con i fiori, i profumi della primavera, l’aria stessa che ha i colori della bella stagione, peccato non poter essere nella condizione di non fare un cazzo in un giorno lavorativo in città. Se vai a spasso il sabato, per non parlare della domenica, quando l’ozio è regolamentato e non spontaneo, non è la stessa cosa. Mi piacerebbe, per dire, provare l’ebbrezza di non avere una meta di mercoledì, per esempio, ma sembra non essere una condizione ammessa dalle convenzioni sociali, almeno qui in occidente.

ti metti in macchina e in mezz'oretta sei in Svizzera

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Uno dei vantaggi di abitare in posto così a nord come Milano è che ti metti in macchina e in mezz’oretta sei in Svizzera. Non sono in molti, sapete, a vivere questa vicinanza come un plus, e so benissimo che tra quei pochi del partito opposto ci sono quelli che si fanno i viaggi con i contanti nella valigia ma questo magari è un luogo comune come il cioccolato e gli orologi che spaccano il secondo. La Svizzera o almeno quel pezzo che è a quaranta km da Milano per noi italiani è un paese straniero tanto quanto la Città del Vaticano o San Marino. Ma nulla mi toglie dalla testa che ci sbagliamo di grosso.

Io poi ci sono abituato ad avere il confine così a portata di mano. Dal ponente ligure che mi ha dato i natali alla costa azzurra è un attimo ed è per questo che ho il massimo rispetto dello status di estero del Canton Ticino. Posti come Mendrisio o Chiasso, il cui nome pronunciato dalla voce automatica in stazione a Milano fa un baccano terribile ed è uno dei rarissimi casi di nomen omen toponomastico, mi fanno la stessa paura di quel pezzo di autostrada in discesa che scorre alle spalle del Principato di Monaco, avete presente? Non so come si chiami questa forma di fobia delle città appena superato il confine, ma pensare di trovarmi una domenica nel tardo pomeriggio in un discount alla periferia di una cittadina francese o svizzera, verso l’ora di chiusura quando fuori fa buio e dovere ancora rientrare in patria mi mette una fifa boia.

In Svizzera poi ci sono un paio di aggravanti. Intanto il fatto che è prevalentemente montuosa e andarci di inverno significa poter rimanere intrappolati in una bufera di neve e non essere capaci a montare le catene o sbagliare strada e trovarsi su un ghiacciaio. Solo l’idea mi fa venire le vertigini con quella stretta là sotto che proviamo noi maschi. Seconda cosa: ci sono pochissime vie di accesso, una delle quali è l’autostrada ma ci vuole la vignette e se ancora sbagli e ti trovi in autostrada e non hai la vignette e magari viene una bufera di neve e non sei capace a montare le catene e magari hai una figlia piccola in macchina? Mi direte: ma perché ci devi andare, in Svizzera? Solo perché è a quaranta minuti da Milano? Giusto: chi ha bisogno di Mendrisio o Chiasso?

Ma non voglio essere inclemente nei confronti dei miei numerosissimi lettori oltralpe così voglio dimostrare con due esempi che il mio processo di riconciliazione con la Svizzera è già a buon punto. Ho attraversato la Svizzera in autostrada (senza catene perché era primavera) da sud a nord e viceversa e dopo aver appurato che non è tutta in salita come sembra dalla carta geografica in quanto posizionata a nord è assolutamente un luogo incantevole, fatta eccezione per i bagni a pagamento in autostrada e gli equivoci sul cambio dell’euro in certi frangenti in cui non si può andare tanto per il sottile e non si ha l’Imodium a portata di mano.

Ma soprattutto, e questo potrete constatarlo liberamente anche voi grazie al digitale terrestre, la TV Svizzera o RSI è un’istituzione culturale che non ha pari al mondo. Al sabato in prima serata mentre da noi c’è “Ballando con le stelle” o peggio lì ti fanno gli speciali su mestieri tipici come l’alpeggio 2.0 o il capostazione factotum di linee ferroviarie di alta quota. Verso l’ora di cena ho scoperto anche un gioco a premi che ha un conduttore con una faccia così rasserenante e alla mano, per di più con certi look che qui in Italia li vedi solo la domenica mattina a messa nei paesini di montagna, che non puoi non constatare la loro superiorità e non solo economica. Per non parlare del campionato di Hockey su ghiaccio che a malapena so come si scrive e certe serie in chiaro di quelle che qui devi spendere fior di quattrini per le padelle da mettere sul balcone.

Ho persino mandato qualche curriculum in Svizzera, anche alla RSI, i loro stipendi sono sempre presi come esempio. Hanno persino una Coop che ha il logo come il nostro ma di un colore diverso e tutti dicono che sia di tutt’altra matrice. Una volta poi per lavoro sono andato a Lugano in treno e mi sono accorto di essere svalicato di là solo perché il telefono non funzionava più ed è passato un manipolo di poliziotti grandi e grossi pronti ad acciuffare qualche clandestino in fuga. Malgrado questa riprova del rigore svizzero non vorrei dirlo forte ma la paura del confine così prossimo sento che mi sta passando, mangerò così una tavoletta di cioccolato guardando i cartoni di Scacciapensieri per completare l’opera di riappacificazione con un popolo che è neutrale per eccellenza.

a giocare con i sentimenti altrui si va sotto di almeno dieci punti

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È passato dal credere di essere la reincarnazione di Gesù a reputarsi un poeta ermetico e persino un cantautore impegnato. Ora la donna che sta illudendo si chiama Piera e stamattina indossa un paio di Hogan bianche dalla foggia inconfondibile. I capelli corti con un taglio alla Jeanne Seberg trasmettono un’idea persino in eccesso di intraprendenza per una quarantenne dai lineamenti troppo pronunciati, a cavallo tra il piacere e il non piacere a seconda dei gusti, certo, ma anche dallo stile del make up con cui si prepara ogni giorno. A quell’età così florida non abbiamo nessun problema a immaginarla singhiozzare per aver compreso la trama ordita di quel bellimbusto che giocherella con i sentimenti altrui e che non perde occasione di esercitare il suo ascendente sulle persone sole. Compone ancora canzoni chitarra e voce e corteggia senza interruzione anche più femmine simultaneamente (e anche nello stesso posto) pur non essendo un vero e proprio donnaiolo. Piera invece non rinuncia alle sue borse costose e alla speranza di condividere weekend e immersioni subacquee nel prossimo futuro con qualcuno che diventi una costante. Passioni scomode per un intellettuale sedentario. Il fatto è che Piera è stata vendicata con fin troppo zelo. Questa specie di narcisista senza futuro non ha fatto tempo a farmi cenno con la mano destra per scusarsi del fatto che non mi aveva dato la precedenza sulle strisce mentre attraversavo a piedi quando all’incrocio successivo un SUV lo ha preso in pieno, lui e la sua cazzo di auto elettrica che non la senti proprio nemmeno arrivare e che, abituati come siamo ai rumori urbani che ci mettono in guardia dalle insidie della città, secondo me è davvero pericolosa. Ho cercato testimoni ma i 4 ragazzi che si facevano una canna sul balcone sopra sono scappati subito dentro, spero a chiamare qualcuno. Dalla casa del curry – io la chiamo così perché è accudita da un portinaio cingalese che cucina piatti tradizionali a tutte le ore e, sensibile come sono alla cucina indiana o giù di lì ogni volta che passo sbavo come Stephen Curry (guarda caso, ma non c’entra niente con la spezia e poi è americano) quando si lascia andare a quel tic di estrarre dalla bocca il paradenti a ogni tripla, roba che invece mi fa vomitare – dicevo che dalla casa del curry che è proprio lì di fronte invece escono due bambini con quelle facce un pacioccose di una volta e iniziano a chiedere al primo che passa, e il primo sono io, se voglio un biglietto ATM usato. Non sanno che ho l’abbonamento.