asian dub foundation: new way new life

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Ecco un altro bel salto nei ritmi che furono, quando anni di Transglobal Underground e Loop Guru, decantando sul nostro substrato reggae e dub, spianarono la strada per uno dei prodotti migliori della multiculturalità fine 90. Consideriamo (scusatemi, oggi sono in vena di plurale maiestatis) Community music l’acme artistico degli Asian Dub Foundation, poco prima che, come nelle migliori occasioni, l’insostituibile frontman Deeder Zaman intraprendesse la carriera solista e attività collaterali. Quindi prima ascoltate “New way new life”, uno dei nostri pezzi preferiti, nella versione dell’album:

e qui in una versione reggae del gruppo giapponese Dry& Heavy, che chiama sul palco proprio Deeder Zaman e aumenta di un grado il livello di multiculturalità. Rrrrrrrrrrrroooots.

miles: sonic 3000

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È stato uno dei pezzi che abbiamo amato di più, quell’anno, perché aveva un bel tiro, melodico quanto bastava, ritornello da urlo, divertente da ascoltare e da ballare. Una chicca che quando la riscopri dopo qualche anno, e anni ne sono già trascorsi ben undici, pensi “diamine, come ho fatto a dimenticarmene per così tanto tempo”. Un vero one shot, perché la band, i Miles, sono dati per dispersi da allora. Ma Sonic 3000 fa almeno per 3 album. Esagero? Provate. Buon ascolto.

da questa parte, grazie

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Tra i numerosi quanto inutili canali che impoveriscono l’offerta televisiva del digitale terrestre, ce n’è uno che tutte le volte che passo di lì – in quei 5 minuti di cazzeggio che precedono il crollo nelle serate estive, momento che comprende una fase di zapping selvaggio tesa unicamente a trovare il programma di Paola Marella che si diverte a ristrutturare case altrui (Paola, se leggi questo post, mettiti in contatto con me: ho grandi progetti) – trasmette esibizioni live (poi capirete perché l’ho messo in italico) di un dj di fronte a centinaia di persone intente a ballare (buon per lui).

Una formula vecchia quanto l’uomo, almeno da quando esiste il giradischi, che però da circa quindici anni a questa parte si è resa protagonista di un processo di evoluzione nel posizionamento strategico delle due componenti fondamentali – dj e pubblico, appunto – all’interno del luogo adibito di volta in volta ad “area da ballo”. Mi spiego.

La discoteca, il club, il luogo chiuso, raramente concede risalto al selezionatore musicale, che sta dietro la console mentre la gente balla la sua selecta. Fin qui ci siamo. A un certo punto, con un paio di fenomeni quali il successo di gruppi privi di batterista e l’avvento della musica elettronica, si sono diffusi gli eventi a metà tra il concerto e il rapporto univoco dj – pubblico danzante. Quest’ultimo balla qualsiasi cosa il dj proponga (almeno un tempo era così) e si fa bellamente i c**** propri mentre il selezionatore in cuffia – a volte nascosto chissà dove, a volte in una sorta di pulpito, altre, come in alcuni locali un po’ improvvisati, con i piatti su un comune tavolino da bar, dentro il bar stesso a rischio di essere travolto dall’esagitato di turno (ho visto una volta un ubriaco rovesciarsi su una console di fortuna dietro alla quale Fabio De Luca aveva appena messo On my radio dei Selecter, la versione live se non ricordo male) – sciorina la sua playlist.

Nell’evento a metà tra il concerto e la selecta invece il dj sta sul palco e il pubblico danzante sta sotto, come nei concerti con musicisti (mi vien da dire veri ma non lo scrivo per non urtare la sensibilità né degli uni né degli altri) dotati di strumenti tradizionali. Già nei concerti dei Depeche Mode, almeno nella formazione più autorevole, cioè quella in quattro con Alan Wilder e prima che a Martin Gore venisse la pessima idea di imbracciare la chitarra, diciamo fino a Black Celebration, c’era un po’ di imbarazzo tra il pubblico. Stare lì in piedi rivolti verso il palco a sentire dischi, perché ora se vogliamo contarcela su va bene, ma non mi si venga a dire che a quei tempi i Depeche Mode suonavano dal vivo, visto che ballavano tutti, ogni tanto davano qualche manata sulla tastiera, e le versioni dei pezzi erano troppo fedeli a quelle registrate, dicevo stare lì a guardare un playback evoluto era un po’ una forzatura. C’era questa finzione collettiva in cui celebravamo tutti insieme da sotto la visione dei nostri beniamini. Ma chiamarlo concerto, onestamente, è troppo.

Passano gli anni e la cosa si ingigantisce pure. Nel 97, dopo aver pagato 60 mila lire per il biglietto del concerto dei Prodigy (poi se volete vi spiego perché l’ho fatto, a volte le cose si fanno anche per gli altri), ho assistito a una performance di base registrata più effetti speciali e coreografie varie, tanto che il gruppo supporto che ho dovuto pure sopportare, tali Marlene Kuntz, si sono distinti enormemente per grinta, suono e pathos. Tanto vale fare come i Kraftwerk, visti pochi anni fa già in versione pensionati i quali, sul palco come quattro impiegati di banca prossimi al ritiro della liquidazione dietro ad altrettanti Mac portatili, hanno eseguito una navigazione in internet con controllo di posta elettronica – perché secondo me proprio quello facevano – al cospetto del pubblico per 2 ore circa, con il valore aggiunto del video, alle loro spalle, che per lo meno dava il quid multimediale mancante.

Il livello successivo, a cui non ho mai voluto per scelta partecipare, comprende i performer tipo i Chemical Brothers. Per inciso: tutti i gruppi e i dj citati finora, a parte Prodigy e Marlene, sono tra i miei preferiti quindi la critica che muovo non è a loro, sia ben chiaro. I Chemical Brothers, potete dare un’occhiata per esempio qui ma avrete visto questi video decine di volte, si mettono dietro ai loro mixeroni e… e poi non si sa bene che fanno. Quanto suonano? Quanto mixano live? E trovarmi lì, in mezzo a migliaia di persone tutte rivolte a guardare due sul palco che magari giocano a solitario mentre sotto un cd suona tutto il concerto mi farebbe sentire un po’ sciocco.

Tutto questo per arrivare al punto di rottura: dj sul palco, ma dj veri, con piatti o cd, e pubblico sotto che, anziché ballare insieme – magari vedi una vicino che ti prende e cerchi di rimorchiarla – è disposto in file orizzontali e rivolto rigorosamente verso di lui. Il dj, poveretto, sì ogni tanto balla, batte le mani, fa qualche gesto di feeling di circostanza, ma il più delle volte lo vedi dare sorsi a un cocktail (e il pubblico ti guarda mentre bevi il cocktail), girare manopoline senza nessun apparente risultato su quello che esce dalle casse (e il pubblico ti osserva e balla mentre giri le manopoline), o guarda con la testa bassa i dischi che ruotano nei piatti, un po’ imbarazzato dall’aver di fronte centinaia di persone che lo guardano anche mentre osserva il moto perpetuo dei dischi sui piatti. Eppure, su questa tv, il pubblico sembra divertirsi un sacco: le ragazze sovente vestono solo il top del costume da bagno, i ragazzi si muovono a tempo con il bicchiere di plastica in mano, e tutti guardano il palco, felici di aver afferrato il senso.

suonare in diciotto

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Music per 18 musicians, o Pulses, è un’opera composta da Steve Reich a metà anni settanta, e per tutti i particolari vi rimando qui, sia per la genesi dell’opera che il suo significato. Sul sito stesso del compositore americano, precisamente qui, è possibile scaricare un frammento in mp3 della prima esecuzione dal vivo, registrata alla Town Hall di New York nel 1976. C’è una tradizione legata a quest’opera. Ogni anno, un sera d’estate in cui mi capita di essere solo, mi prendo una vacanza dalla corporeità. Un’esperienza che sulla carta è breve, dura un’ora circa. Ma in realtà è possibile perpetuarne l’effetto, soffermarsi nei pulses a propria discrezione. Provatene l’ascolto: non chiamerete più trance nessun altro genere musicale. Giuro.

jam session

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Carletto ha chiesto e ottenuto dalla mamma il permesso per andare al primo concerto della sua vita. L’idea è stata tutta sua: ha notato un manifesto sul muro del palazzetto tornando da basket, ha coinvolto un paio di compagni di classe e in quattro e quattr’otto il progetto ha preso corpo. “Facciamoci coraggio”, si sono detti, “i nostri genitori non possono dirci di no. Abbiamo 13 anni, siamo grandi”. Così, il pomeriggio stesso, i ragazzi hanno preso di petto l’unico vero ostacolo. Ed è stato più semplice del previsto. Il concerto in fondo è di Edoardo Bennato, non stiamo parlando dei Clash, e si terrà nello stadio comunale, mica a Bologna, a poche fermate di autobus dalla casa di Carletto. Il periodo stesso, siamo a maggio inoltrato e l’anno scolastico è agli sgoccioli, invoglia alla permessività. “E sia”, dice il papà di Carletto, aggiungendo una valanga di raccomandazioni del caso: no passaggi in auto, no sigarette da sconosciuti, no bevande e cibi da nessuno, no parlare con ragazzi che sembrano drogati eccetera eccetera.

La nonna regala a Carletto le cinquemila lire con cui comprare il biglietto del concerto; l’unica rivendita autorizzata è lo studio di una radio libera. Carletto così, al ritorno da scuola la mattina dopo, passa dalla radio – un appartamento sulla via di casa – e, tutto fiero, rientra tenendo stretto in mano il suo biglietto verde con su il disegno di un’armonica a bocca che, dopo averlo mostrato con orgoglio ai familiari, ripone con cura nel cassetto della scrivania.

Giunge infine il giorno dell’evento, infrasettimanale. Carletto è pieno di dubbi: come ci si comporta a un concerto? Si sta in piedi o seduti? Si può cantare o no? Ci saranno ragazze carine? Non biasimatelo, è il primo concerto della sua vita. La nonna di Carletto, che lo vede un po’ in ansia, è la più preoccupata di tutti e, ancora meno esperta di happening di musica rock (Bennato ha appena pubblicato Il rock di Capitan Uncino, è molto più rock di altri sedicenti rockerz) fa domande poco pertinenti: “Ma se esci prima di cena dove mangi? Ti preparo qualcosa da portarti al concerto?”. Carletto ha la soluzione: mangerà un sostanzioso panino a merenda, prima di uscire. “Sì, ma comunque ti do un sacchetto con un po’ di ciliegie”. Con la nonna non si discute.

Ed ecco Carletto e suoi compagni di classe alla conquista del mondo. Jeans e maglietta, Carletto con un sacchetto di carta del panettiere pieno di dolcissimi frutti rossi. Lui e i suoi coetanei ne smangiucchiano un po’, ma ci sono troppe cose da scoprire intorno. Sono quasi tutti più grandi ma non importa. I cancelli sono ancora chiusi, la gente continua a confluire verso il campo sportivo. E, a dire la verità, ne confluisce un po’ troppa. Un paio di ore in piedi quindi i cancelli si aprono, e solo a quel punto Carletto comprende il concetto di calca. Piccolo e magro, come i suoi amici del resto, resta immediatamente inglobato in quella pressa umana e per circa venti lunghissimi minuti, schiacciato da ogni parte, tenta di far valere la propria volontà nella direzione da prendere per tentare l’ingresso allo stadio, senza successo. È la folla che comanda, è la folla che si plasma e si comprime per passare nel collo di bottiglia dei cancelli, per poi essere sputata al di là del servizio d’ordine che, dopo una distratta occhiata al biglietto, consente l’accesso a quel salto di qualità, il mondo dei grandi. Dal subbuteo ai concerti. Wow.

L’erba del campo sportivo, anche quella è una prima volta, è perfetta e regolata ovunque, ma lo sarà ancora per poco: la gente è davvero tantissima. Carletto e gli amici trovano a malapena posto e si siedono. “Hai i pantaloni macchiati”. Carletto si guarda i jeans, sul lato destro: la coscia è bagnata e tutta sporca di rosso. Già, il sacchetto colmo di ciliegie non ha ovviamente retto alla massa all’ingresso, Carletto era talmente impegnato a inspirare ed espirare che non si è curato di quello che portava con sé. Le ciliegie non sono uno spuntino da rocker. Carletto si avvia per liberarsi di quel che resta di un sacchetto di carta zuppo di qualcosa che sembra una marmellata e innalza, passo dopo passo verso il contenitore della spazzatura, la prima barriera adolescenziale nei confronti degli adulti. Il primo scontro sta per accadere. Nessuno, lì intorno, avrebbe mai portato le ciliegie a un concerto.

casino royale: io e la mia ombra

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Dunque c’è questo nuovo gruppo italiano, il cui nome ricorda i film di James Bond, e quello che segue è il primo singolo tratto dal loro album di esordio, omonimo. Un suono all’avanguardia, c’è un po’ di tutto, dal dubstep al reggae all’elettronica. Insomma, le premesse ci sono, è una band alle prime armi e quindi non potranno fare altro che crescere. Unica pecca, la finta pronuncia all’inglese dell’italianissimo cantante che fa tanto provincia, quel modo di dire la t che nemmeno Don Lurio. Pazienza, il pezzo è godibile ugualmente.

the givers: up up up

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the rapture: how deep is your love

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Aspettando l’uscita di In the grace of your love, prevista a settembre, ecco un assaggio di quello che sarà il nuovo album dei The Rapture. Come si evince fin dal riff iniziale di piano, non ha nulla a che fare con i Bee Gees, anche se un po’ di febbre da sabato sera la fa venire.

avrei fatto lo stesso

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il peggio sembra essere tornato

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E all’improvviso è comparso Sergio Caputo. Che storia bizzarra. Ho acceso la tv su RAI5 mentre finivo di bere il caffè, e in una replica dell’anno scorso di una replica del 1983 di Mister Fantasy è riemerso Sergio Caputo. Mi è andato persino un sorso di caffè per traverso. Vi giuro lo avevo rimosso, credo ormai da venticinque anni ma con non poca difficoltà perché, non ci crederete, aveva un potere occulto sui musicisti ed era la mia bestia nera. E solo perché allora suonava quella specie di pop swingato sintetico, che a sentirlo oggi, con i fiati farlocchi, fa rabbrividire. Tutti i musicisti dilettanti potevano così mettere in pratica la loro tecnica comprata al chilo alle lezioni di jazz e aumentare a piacimento il numero dei rivolti e delle sostituzioni di passaggio tra un accordo e il successivo, e anche il più semplice maggiore o minore si ritrovava schiacciato da settime e none e undicesime e tredicesime e quindicesime, aumentate e diminuite quanto basta. E, sopra tutto questo, il vocalist poteva svolgere contemporanemente la sua funzione di crooner e di cantautore e di piacione dietro i suoi baffi biondi. Non gli sembrava vero.

Questa cosa è andata avanti per anni, anche quando Sergio Caputo ormai non se lo filava più nessuno ma le cover band eseguivano, nelle piazze d’estate o alle Feste dell’Unità, i pezzi di Sergio Caputo che nessuno sapeva nemmeno chi era. Cover band che, appunto, si chiamavano i Sergicaputi. Mettevi su un gruppo con gli amici per fare qualche serata, e stai sicuro che almeno uno stronzo che proponeva un pezzo di Sergio Caputo lo trovavi, o il Sabato italiano o il Garibaldi innamorato. Perché solo con Sergio Caputo si poteva lanciare un messaggio agli intenditori: hei bello guarda che io studio jazz, mica faccio i New Order con quei sequencer campionatori e puttanate varie che schiacci play e suonano da sole. Insomma, faceva caldo ma non sudavo. È ricomparso Sergio Caputo e, forse perché le estati di allora me le ricordo torride, chissà perché, ho iniziato a sudare.