Fin Del Mundo – Todo va hacia el mar

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“Nessun suono tranne quello del vento, che sibila fra i cespugli spinosi e l’erba morta”. Questo è l’ascolto della Patagonia che ci ha restituito Bruce Chatwin, testimone acustico (a corollario di un’intera letteratura) di un luogo, anzi, di un concetto che, come poche altre cose al mondo, a noi da questa parte del pianeta evoca l’idea di distanza e di estremo. Oggi quella remota lingua di continente, che vista sul planisfero sembra frammentarsi nella Terra del Fuoco, può contare su un soundscape più moderno ma di altrettanta desolazione e nostalgia grazie alle composizioni delle Fin del Mundo.

Non c’è nome più adeguato per una band nata tra i venti gelidi e i panorami surreali della provincia di Chubut (costa atlantica dell’Argentina più a sud) e poi cresciuta a Buenos Aires a ridosso della pandemia, periodo durante il quale il nome Fin del Mundo ha assunto una seconda accezione e poi una terza, la più recente, come riflesso della complessa situazione internazionale. Che sia inteso come remota periferia del pianeta, estinzione da virus o game over dovuto alla guerra, come la guardi comunque non c’è molta speranza. Il viaggio dell’umanità si conclude ai piedi di un faro ai limiti della Terra, proprio come l’artwork di copertina di Todo va hacia el mar, il folgorante album di esordio di Julieta Heredia (chitarra), Julieta Limia (batteria), Lucía Masnatta (chitarra e voce) e Yanina Silva (basso). Nell’illustrazione si vede una viaggiatrice con lo zaino sulle spalle che osserva il mare oltre il quale non ci si può più spingere, perché tutto finisce lì.

Todo va hacia el mar in realtà riunisce i due EP pubblicati solo in digitale dalla nascita del gruppo nel 2019 in una edizione speciale e limitata su supporto fisico (sono l’orgoglioso proprietario della copia n. 50 in vinile trasparente). Il primo dei due, omonimo alla band e risalente al 2020, è risultato decisivo per due fattori: ha permesso alle Fin Del Mundo di rimanere unite in un periodo di separazione forzata e a così poco tempo dalla fondazione, ed è stato di altrettanto conforto ai primi supporter della band, costretti in casa dal lockdown. Il tutto grazie a un messaggio di conforto: una fine del mondo lascia comunque spazio a una seconda opportunità, qualunque essa sia.

Lo stile delle Fin Del Mundo può essere ricondotto a un indie rock con sconfinamenti nel post rock e in alcune trame shoegaze, anche se non è difficile cogliere spunti di tardo post punk e qualche più garbato ripensamento dream pop. Nelle composizioni di Todo va hacia el mar si percepisce l’approccio diretto e live della band (il one-two-three-four di bacchette che introduce “La Noche”, prima eccellente traccia del disco, non lascia dubbi), con lunghe divagazioni strumentali che mettono ancora più in evidenza i momenti in cui le canzoni riprendono una conformazione più strutturata ma sempre agli antipodi, più o meno come la Patagonia, dell’alternanza strofe e ritornello. Una manciata di versi per ogni brano o poco più. Un sound basato su due chitarre perfettamente amalgamate, pronte ad alternare arpeggi puliti a pennate graffianti.

Todo va hacia el mar si compone di otto brani, pochi ma superlativi e, soprattutto, più che sufficienti a restituire un quadro completo delle potenzialità delle quattro ragazze. “La noche” è un’intro perfetta, veloce e con il taglio più indie rock del disco, in perfetto contrasto con il dream pop di “Las flores” e della successiva “La distancia”. Il brano che si intitola come loro, “El fin del mundo”, sconfina addirittura in atmosfere shoegaze.

In perfetta simmetria, anche il lato B del disco, introdotto da “Hacia los bosques”, si avvia come la prima facciata. “El proximo verano”, la traccia che segue, condensa tutte le anime della band e, di tutto l’album, forse è quella che più si avvicina ad essere riconoscibile in una veste da singolo. Chiudono il disco la struggente e poetica “Desvelo” e “El incendio”, una canzone a due marce (la prima sorretta da un intreccio di chitarre che ci riporta ai Cure di “Wish”) che contiene il verso da cui è tratto il titolo dell’album: “Me dejo llevar, me dejo llevar, Si todo va hacia el mar, Todo va hacia el mar”.

Per i gruppi che provengono dalla fine del mondo, o quasi, lo sforzo per approdare al pubblico dell’emisfero settentrionale è triplice. Non basta convincere, occorre anche trovare spazi per emergere che devono risultare adatti a una proposta in lingua spagnola, in un oceano di offerte sempre più eurocentriche. A dimostrazione della loro qualità, il live delle Fin del Mundo alla KEXP in poco più di un anno ha superato ampiamente il milione di visualizzazioni. C’è poco da stupirsi. Todo va hacia el mar è un viaggio in Patagonia ai tempi del villaggio globale raccolto in un disco sorprendente e in uno degli esordi più piacevoli e convincenti di quest’anno. Se laggiù davvero il mondo finisce, si intravede comunque qualcosa all’orizzonte per ricominciare tutto da capo, e meglio di prima.

Bleach Lab – Lost in a Rush of Emptiness

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Quello dei Bleach Lab è uno splendido dream pop basato sulla chitarra di un chitarrista che, a ridosso della pubblicazione dell’album di esordio della band (il disco di cui sto scrivendo) ha mollato il colpo.

Ve lo dico perché avevo appena sistemato l’attacco per questa sorta di recensione e faceva più o meno così: Jenna Kyle e Frank Wates dei Bleach Lab passeranno alla storia come una di quelle coppie voce e chitarra che il destino ha voluto far incontrare apposta per rendere immortale la reciproca complementarità. Stavo addirittura per tirare in ballo Morrissey e Johnny Marr, o Elizabeth Fraser e Robin Guthrie. Poi (è stato per puro caso) mi hanno insospettito delle riprese di un live dei giorni scorsi, pubblicate su Youtube, e una foto promozionale che accompagna il disco: le facce dei chitarristi sono oggettivamente diverse.

È stata sufficiente una ricerca sul loro profilo Facebook per recuperare il post dell’annuncio della separazione, risalente ai primi di ottobre, a farmi riflettere sul fatto che il prossimo disco sarà più che una prova del nove per questa talentuosa band londinese. Mi chiedo infatti quanto sia stato determinante lo stile dell’ormai ex-chitarrista Frank Wates per il suono nativo che mi ha catturato così tanto da farmi innamorare di loro e per il valore che ha aggiunto ai Bleach Lab. Se il futuro secondo trentatrè giri dei Bleach Lab funzionerà allo stesso modo di Lost in a Rush of Emptiness, e ce lo auguriamo con tutto il cuore, e il chitarrista che lo rimpiazzerà sarà più di un mero turnista, significa che ci troviamo al cospetto di un band con una personalità incredibile e sufficientemente forte e matura a prescindere dalle individualità al netto di Jenna Kyle, la cantante, che, forte del suo ruolo, ha più voce in capitolo di tutti.

Ma, almeno per ora, godiamoceli così. I componenti dei due classici della musica che ho citato poco fa non sono stati tirati in ballo a caso e non solo per lo stile in sé. I Bleach Lab sono veri maestri nel restituirci (con sobrietà e poesia) emozioni catturate con una sensibilità che rimanda ai The Smiths nella loro versione più sommessa e trascurabile e ai Cocteau Twins meno intransigenti e più alla mano (quindi a glossolalia rottamata) di Heaven or Las Vegas. Due riferimenti colti nella loro dimensione da b-side (un richiamo alle rispettive hit suonerebbe stucchevole) attraverso rimandi accennati e riscritti secondo i canoni della percezione della musica da vecchi che ha la generazione millennial. Che poi non è proprio così: la storia del dream jangle indie pop è piena di chitarrine pulite e riverberate a fare da culla a voci eteree femminili in ogni decennio, lascio a voi (dai The Sundays ai Mazzy Stars ai Daughter) il piacere della speculazione nelle similitudini.

E il bello di Lost in a Rush of Emptiness, titolo riconducibile alle liriche postume di Leonard Cohen, va individuato nella sfida a smarrirsi per non ritrovarsi lungo il confine impreciso in cui si amalgamano proprio canto e accompagnamento musicale, quello spazio in cui l’uno si confonde egregiamente nell’altro e viceversa. Un aspetto sorprendentemente convincente (e molto più a fuoco di quello che lascerebbero intendere dalla foto di copertina del disco) per una band agli inizi come i Bleach Lab. Sono proprio loro, nelle interviste a supporto dell’uscita del disco di debutto, a dichiarare di aver lavorato meticolosamente e con professionalità alla sua realizzazione.

Non a caso Lost in a Rush of Emptiness suona come una bomboniera artigianale da prima comunione se paragonato al clamore dei chiassosi cotillon musicali a cui siamo sempre più esposti, aspetto che si intuisce sin dalle prime note di “All Night”, il brano introduttivo del disco: nessun incipit d’effetto o crescendo mozzafiato, ma solo un fill di tamburi da prima settimana di lezioni di batteria. Essenziale ma efficace, la prova della mancanza di spazio per gli individualismi in un progetto di questo tipo, a tutto vantaggio delle loro composizioni.

E a marcare la differenza con le tematiche mainstream, l’approccio in punta di piedi dei Bleach Lab è una boccata d’aria fresca. La gentilezza e la sensibilità come linguaggio prestato a tradurre in canzone disfunzioni intime, a partire dalle relazioni claustrofobiche e velenose, il dolore e le angosce d’amore, l’isolamento, la dipendenza dall’alcol e persino un tema urgente come quello delle molestie sessuali. Una tracklist colma di spleen in cui è prevista la redenzione finale, un brano in cui la band canta con pochissima convinzione che “Life Gets Better”, la vita migliora. Ma chi volete prendere in giro, con quei suoni e quel mood lì? Lost in a Rush of Emptiness è l’ennesima prova del fatto che non ha senso ascoltare musica che non sia deprimente.

E, da questo punto di vista, è davvero difficile trovare un difetto in un disco come questo. Il pop shoegaze dei Bleach Lab impone tempi dilatati alle canzoni e, di conseguenza, ci lascia tutto lo spazio per bearci della malinconia e del disagio, sentimento del quale, anche nei momenti più di successo della nostra vita, un po’ di scorta abbiamo sempre da qualche parte. Un disco che raccoglie gli insegnamenti di un filone perfetto per crogiolarsi nel malessere e continuare a far finta, almeno per l’ascolto dell’album, che lo stiamo accettando, ci stiamo convivendo e stiamo provando (“guarda un po’”, raccontiamo a noi stessi) a trovare persino una via d’uscita. Ed è una fortuna (l’unica) che dischi come questo durino poco.

Egyptian Blue – A Living Commodity

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Stare dietro alle nuove uscite di dischi post-punk e distinguere quelle di reale qualità, di questi tempi, è un’impresa. Il rischio per i militanti del genere, soprattutto se emergenti, è quello di rincorrere l’affermazione affiliandosi a uno dei generi del momento senza una visione a lungo termine. Ogni nuova uscita è bene prenderla con riserva. Molto meglio aspettare il secondo disco, per verificare se si ha a che fare con un progetto da una botta e via o c’è invece dietro della sostanza in grado di garantire la crescita e la definizione di uno stile più personale.

In questo scenario, possiamo considerare gli Egyptian Blue un’eccezione a tutti gli effetti. Il loro debutto a trentatré giri dal titolo A Living Commodity suona già come una conferma e un traguardo di maturità compositiva.

Sarà che la band pubblica singoli e EP dal 2019 e che (sopravvissuti alla selezione naturale artistica imposta dal lockdown) sono stati chiamati a condividere il palco con gruppi della portata degli Idles e dei Foals nei loro tour. I rispettivi leader, Joe Talbot e Yannis Philippakis, si sono dichiarati sostenitori entusiasti di questo quartetto originario di Colchester, poi cresciuto musicalmente a Brighton. Non a caso, se vogliamo dare delle coordinate, gli Egyptian Blue professano influenze indie-rock anni 2000 (che grazie a loro acquisisce lo status di classico a tutti gli effetti) più che dall’onnipresente famedio degli anni ’80.

Il nucleo fondante di questa nuova promessa del post-punk è capitanato dal ticket Andy Buss e Leith Ambrose, entrambi chitarristi e cantanti che si frequentano musicalmente dall’adolescenza, e completato dalla potente propulsione ritmica di Luke Phelps al basso e Isaac Ide alla batteria.

Il quartetto è artefice di un suono che rielabora gli standard specifici del genere con un inconfondibile piglio personale, caratterizzato da riff graffianti che sconfinano nel math-punk, spesso in tempi dispari, ripetuti in loop, e destinati a incastrarsi brutalmente in basi quadrate e martellanti, sulle quali si normalizzano straordinariamente in un andamento regolare e ipnotico. Nell’insieme, un suono elettrico e pulito basato sulle chitarre, veloce e a forte impatto, con tracce essenziali e compatte che concentrano, in tre minuti o poco più, tutto quello che c’è da dire.

Il disco suona nervosissimo dal primo all’ultimo brano, sia nelle tracce in cui l’intransigenza post-punk non ammette compromessi, come “Matador”, “Nylon Wire”, “To Be Felt” e “Contain It”, sia nei brani in cui la voracità esecutiva lascia spazio all’introspezione e all’atmosfera, è il caso della titletrack, di “Apparent Cause” e di “Suit Of Lights”, sia negli episodi più riusciti del disco, in cui la rabbiosa scrittura della band è mediata dalle incursioni in trovate ritmiche scomode ma gestite con grande perizia, grazie alla tecnica esecutivo dei quattro. È infatti in canzoni come “Belgrade Shade”, “Skin”, “In My Condition”, “Geisha” che A Living Commodity risalta nella sua eccezionalità, grazie a uno stile fuori dagli schemi che ci auguriamo che la band – sicuramente una delle più convincenti promesse della più recente scena anglosassone – abbia l’intenzione di approfondire.

Di certo, l’esordio degli Egyptian Blue, perfezionato lungo varie scritture e riscritture e pubblicato da YALA! Records, etichetta co-fondata dall’ex componente dei Maccabee Felix White, è uno dei più freschi debutti sulla piazza. Un’opera prima ambiziosa di una band destinata a lasciare il segno

Colapesce Dimartino – Lux Eterna Beach

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La copertina non lascia dubbi. Colapesce e Dimartino che si allontanano dall’installazione della meridiana del Parco Astronomico GAL Hassin di Isnello, nell’entroterra di una di quelle località rivierasche della Sicilia (Cefalù) dove gli inglesi in vacanza pisciano nel mare senza tante remore. Nella foto si vedono i due prendere strade diverse (considera che tutto può finire, così ci hanno ammonito sornioni per tutta l’estate), ma per andare dove, viene da chiedersi. A Singapore? Ce l’hanno insegnato loro che paese che vai, stronzi che trovi. Non si può fare il conto, sono davvero a milioni.

Ecco. Potremmo liquidare il sofisti-pop d’autore di Colapesce e Dimartino (a tratti rock con evidenti ammiccamenti alla più moderna psichedelia) con qualche supposizione complottista, qualche citazione sottile o qualche distratto elogio sulla sua sorprendente orecchiabilità. Un tratto con cui indubbiamente occorre fare i conti se consideriamo l’incommensurabilità degli ascolti dei loro successi sanremesi sulle piattaforme di streaming, i dischi di oro e platino, i premi della critica, per non parlare dell’onnipresenza radiofonica del loro recente tormentone estivo.

Potremmo farlo, ma ci perderemmo un’occasione straordinaria per comprendere a fondo e celebrare, di conseguenza, uno dei progetti più sagaci e dissacranti del nuovo scenario cantautorale italiano. L’unico (gli tiene botta solo Calcutta) in grado di sobbarcarsi con autorevolezza l’onere di far fruttare la rendita (con tanto di interessi) dell’eredità culturale degli ingombranti padri fondatori del genere.

Uno stile rielaborato, al contempo, secondo il cinismo senza speranza e la schiavitù della riduzione di qualunque cosa a meme, vero must dei giovani adulti di questo incontrovertibile decorso storico tutto social. Un modello compositivo riconoscibilissimo grazie a certi timbri ormai marchi di fabbrica dell’indie radicale e colto. Un’estetica musicale che va per la maggiore, di cui si odono gli echi provenire dalle camerette delle generazioni protagoniste del più grande ritiro sociale della storia dell’umanità, dagli appartamenti full-Ikea dagli affitti alle stelle, domicili mantenuti dal lavoro dei genitori di universitari fuori sede e di stagisti freschi di migrazione dal sud sfruttati con il pretesto di ricoprire i ruoli dai nomi più altisonanti negli open space delle filiali locali delle multinazionali dell’industria del virtuale.

Un ascolto attento dell’opera frutto del sodalizio tra i due cantautori siciliani (uno di Siracusa, l’altro di Palermo, due mondi a sé) ci esporrebbe alla profondità della loro poetica, al detto e al non detto dei loro versi, alla familiarità che scopriremmo di avere con le tematiche e le storie raccontate nelle loro canzoni. Per questo è un vero peccato che, a quanto sembra, la partnership tra Colapesce e Dimartino sembra essere giunta ai titoli di coda, la chiusura di una parentesi fruttuosa nelle rispettive carriere ai margini dell’underground nostrano, in quel non-luogo dove si raccolgono consensi da una nicchia squattrinata, schiava degli apericena e mutevole alla sovraesposizione di proposte, un mercato in cui l’offerta supera di gran lunga la domanda.

D’altronde Colapesce e Dimartino sono l’esempio più riuscito di come si favoriscono le economie di scala. Una joint venture, più che un’acquisizione. Tra i due è difficile individuare quale fosse il meno popolare prima del febbraio 2021. In un festival a porte chiuse, uno dei più eclatanti ossimori dell’industria dello spettacolo televisivo, forti di un carisma tutto meridionale, facendo leva sulla formula della coppia di personalità singole a dividersi la scena senza sottrarsela reciprocamente, Colapesce e Dimartino sono riusciti a elevare a potenza due talenti e a sprigionare in onda (e in Eurovisione) un messaggio che ha pienamente colto nel segno. Un progetto curato meticolosamente fino al dettaglio, dal distorsore compattissimo (e trendissimo) dei soli di chitarra, poche note ma sempre quelle giuste, alle parole perfettamente cesellate nei solchi delle canzoni, fino alla dimensione dei colletti delle casacche anni Settanta.

Ora, dopo aver sbancato due volte Sanremo e aver prodotto e interpretato un film (uno spasso, fidatevi), hanno dato alle stampe una vera e propria raccolta di hit. Perché mentre “I mortali” conservava quella componente di repertorio secondario, inevitabile in un disco come quello, data la presenza di pezzi da novanta del calibro di “Musica leggerissima”, “Luna araba”, “Cicale” e “Majorana”, in Lux Eterna Beach siamo al cospetto di un upgrade. Dalla prima all’ultima traccia i due non scendono di una tacca in perfezione, un primato in cui si può leggere tra le righe il senso di mollare il colpo proprio adesso, sulla scia dei fasti di un disco così difficile da eguagliare, figuriamoci da superare.

Un tripudio di intelligenza, a tratti estremizzata in adorabile spocchia, in grado di soddisfare tanto i fan di Propaganda Live quanto il popolo di ignavi rapiti dalle rime catchy delle assegnazioni di XFactor. Differenti piani di lettura riconducibili al merito dell’abilità compositiva e all’intuito commerciale di un connubio artistico mai visto, da queste parti.

In quello che, statene certi, verrà incensato ai primi posti delle classifiche dei dischi italiani più belli dell’anno, ci sono intanto un’intro e un’outro da manuale. La prima cantata e dal titolo che, come la luce che sfiora di taglio la spiaggia, mette tutti d’accordo. La seconda, la title-track, uno struggente strumentale post-rock impreziosito da un tema di piano scarno e minimal, la perfetta colonna sonora per lenire il dolore dell’addio a questa esperienza artistica.

Ci sono ovviamente i singoli da primato che hanno preceduto il disco, “Splash”, “Cose da pazzi” e “Considera”, e quelli che probabilmente verranno, pienamente all’altezza del successo dei precedenti, e mi riferisco a “Neanche con Dio” e “30.000 euro”. C’è anche il colpo di genio, “Ragazzo di destra”, la bestia nera (anzi, rossa) degli opinion leader più permalosi tra le squadrette dei fratellisti d’Italia e dei fasciomeloniani, feriti nell’orgoglio dall’invito a mangiarsi il gelato con qualcuno, in un giorno di festa.

Non potrebbero mancare quindi le immancabili citazioni anni ottanta, a partire dal Battiato de “La voce del padrone” protagonista in “Sesso e architettura” o il soft-pop dei Tears For Fears di “Everybody Wants to Rule the World” che riecheggia, almeno nel ritmo, in “Forse domani”, brano che annovera la riuscita partecipazione di Joan Thiele. C’è persino il featuring impossibile di Ivan Graziani (Francesca Michielin ne sa qualcosa) nella traccia “I marinai”, presente con uno stralcio di inedito recuperato dai nastri del rocker abruzzese che, con la sua stessa voce, ci riporta a quel modo di fare i lenti nel torbido periodo del pop di quegli anni, con una melodia che invita all’armonizzazione del tema di “Soleado” dei Daniel Sentacruz Ensemble.

Anche se apparentemente riconducibile alle canzonette del momento, la musica di Colapesce e Dimartino si conferma un riuscito esperimento di trasposizione in chiave metafisica dell’ordinarietà, il frutto di una naturale intelligenza artificiale in grado di raccontare, con poesia e ironia, la contemporaneità. Ed è in questo aspetto, più di ogni altro, che sublima la sicilianità più psichedelica delle tracce che compongono Lux Eterna Beach, l’opera conclusiva di un’esperienza che difficilmente dimenticheremo. Meno male, stanno già cantando, coperti dalla musica in crescendo, Colapesce e Dimartino, con quel vezzo di indietreggiare dal microfono per restare protetti dagli strappi di chitarra, questa volta allontanandosi per sempre e senza bis. Meno male, stanno già cantando, non si vede la fine.

puntini puntini

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Ho sostituito le lenti che uso per leggere e per stare al computer la scorsa primavera e, per il rotto della cuffia, ho evitato l’upgrade alle progressive. Da lontano vedo ancora bene ma, da vicino, è sempre più un disastro. Il fatto è che gli occhiali sul naso mi danno fastidio e cerco di rimandare il più possibile il momento in cui dovrò portarli costantemente, anziché indossarli solo per la presbiopia. Ma negli ultimi mesi la situazione è peggiorata e temo di non avere scampo. La mattina, appena sveglio, faccio una fatica enorme a mettere a fuoco le cose in prossimità e sono esposto a rischi grossolani. Per esempio, stamane ho ricevuto sullo smartphone il messaggio dall’app della banca dell’accredito dell’assegno famigliare di 13.00 euro ma, non vedendo il puntino tra unità e decimali, ho letto 1.300 e, messi gli occhiali, ci sono rimasto molto male. E pensare che la questione della separazione tra le classi – la società contemporanea non c’entra, mi riferisco al valore posizionale delle cifre nei numeri, quindi miliardi, milioni, migliaia e unità semplici – è all’ordine del giorno. La mia collega veterana e opinion leader in matematica sostiene di aver vissuto in prima persona il dibattito, tempo fa, sulla necessità di individuare un’alternativa ai puntini, considerando che le calcolatrici ne utilizzano il simbolo al posto della virgola. Lei è una sostenitrice radicale e accanita dello spazio tra le classi. A me non piace in prima battuta perché non sono classista ma, soprattutto, perché poi crea confusione ai bambini quando si tratta di risolvere le operazioni in colonna. Il testo che ho adottato, poi, sostiene che, oltre allo spazietto, si può usare il puntino sotto ma anche quello sopra. Non solo: le calcolatrici moderne, per non parlare delle app, la virgola la sanno scrivere eccome. Mi scoccia, però, avviare discussioni inutili con la mia collega decana, che poi ha solo un paio di anni più di me ma insegna da quando ne aveva diciotto mentre io, a diciotto, mi conciavo come Robert Smith. Faccio finta di nulla, annuisco nelle discussioni quando insiste sul fatto che il mondo della pedagogia si era espresso senza lasciare alcun dubbio sul problema dello spazio rispetto al puntino, ma poi, alla LIM, quando lavoriamo in classe sulle operazioni con i numeri grandissimi, dico ai bambini che possono fare quello che vogliono. Puntino sopra, puntino sotto, spazietto, lascio scegliere cosa preferiscono, basta che facciano attenzione. Anche perché, a fare attenzione, il primo devo essere io. La scrittura alla LIM è l’unica attività ravvicinata in cui è meglio che mi tolga gli occhiali. Sarà la penna, sarà la luce, sarà la vecchiaia, fatto sta che anche per le operazioni più semplici  – contare otto quadretti, fare i puntini tra le classi dei numeri – devo allontanarmi e controllare due volte. Chissà se con le lenti progressive cambierebbe qualcosa. E comunque, quando leggo “lenti progressive”, la prima cosa che mi viene in mente è “After The Ordeal”.

Vagabon – Sorry I Haven’t Called

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In “Sorry I Haven’t Called” ci si prende e ci si lascia e poi si balla tutta la notte per dimenticare, lungo storie di attrazione e di addii raccontate in forme diverse ma suonate con uno stile unico. Nel disco della maturità, Vagabon fa brillare finalmente tutta la sua personalità artistica.

Spero che qualcuno escogiti al più presto un nome per lo stile che sovrappone il moderno r&b all’indie pop di matrice cantautorale. Dovrà essere un concept talmente evocativo da ricondurre ai principi costitutivi (fortemente antitetici) di questa entità ibrida. Una sfida non semplice, se consideriamo il calore dell’elettronica di base e delle radici black da un lato contro il rigore delle strutture guitar-based dall’altro. Io me ne guardo bene dal provarci, mi è venuto mal di testa solo a sforzarmi di descriverlo, ma ci tenevo a introdurvi alla musica di Laetitia Tamko, in arte Vagabon che, per darvi delle coordinate, si colloca a metà tra Arlo Parks e Sudan Archives.

Almeno così l’avevamo lasciata quattro anni fa all’uscita del suo ellepi omonimo, un secondo album complesso e introspettivo, a tratti cupo, che aveva a sua volta marcato radicalmente le distanze dall’acerbo indie-rock del precedente poco-più-di-un-EP di esordio. Tra Infinite Worlds e il s/t ci sono almeno due tacche di distorsore di differenza.

Sorry I Haven’t Called testimonia un’ulteriore crescita (proporzionale alla stessa che ha interessato i capelli di Vagabon) in cui l’estro compositivo dell’artista non fa compromessi in complessità ma, forte di una produzione al passo con i tempi (c’è di mezzo Rostam Batmangli, già dietro ai suoni di Vampire Weekend, Haim e Clairo), trasmette un approccio più sereno alla musica e una maggiore e riuscita leggerezza artistica.

Laetitia Tamko, in dodici tracce, spazia con disinvoltura lungo tutta quella che è la sua poliedrica personalità dimostrando di aver conseguito una maturità stilistica e di essere in grado di suonare e cantare qualunque cosa. Un album che nasce con l’urgenza di dare forma a un evento drammatico e che riesce, brano dopo brano, a neutralizzare il dolore e a sublimare in energia in grado di superare, o per lo meno arginare, le difficoltà.

Nella produzione di Vagabon non ci sono mai state fondamenta così elettroniche come in Sorry I Haven’t Called, in tutte le sue varietà. Dai richiami trap di “Can I Talk To My Shit” alla sofisticata techno di “Carpenter” e “You Know How”, sino alla drum’n’bass di “Do Your Worst”, cose che succedono se si trascura la chitarra per comporre principalmente al pc, strumento sicuramente più versatile. Un’eternità dal precedente lavoro, un periodo durante il quale la cantante newyorchese ha vissuto confinata in un paesino della Germania settentrionale, un ritiro volontario imposto dalla necessità di elaborare un lutto. Le frequentazioni di club mitteleuropei, votati principalmente all’oblio da cassa in quattro, hanno avuto una solida influenza su alcune soluzioni dance che è poi il ritmo della redenzione per eccellenza e che suona come la conferma che Vagabon ha fatto pace con il mondo.

Non a caso, il prodotto di questa ricerca di sé trasmette il desiderio di parlare in modo più diretto e di presentarsi con maggiore disincanto, un tratto che si percepisce perfettamente dalle liriche della traccia introduttiva e dal timbro della voce, qui meno sofferto, graffiante e posizionato sulle note acute rispetto agli altri lavori. “Lexicon”, addirittura, è un invito al ballo – a partire dal suo ritmo funk – pensato come deterrente ai cattivi pensieri che ci sorprendono vulnerabili dopo le tempeste sentimentali.

Ci sono infine i due estremi della dicotomia di questo genere che non sappiamo ancora definire ma, a proposito del quale, un giorno ricondurremo Vagabon nel novero delle madri fondatrici. Brani come “Made Out With Your Best Friend”, “Nothing To Lose” e “Passing Me By”, smaccatamente neo-soul, contro “Anti-Fuck”, la traccia conclusiva. Qui Vagabon ritrova le tensioni indie rock degli albori: voce su chitarra (una pennata inconfondibile) a dare forza alla ricerca delle ragioni di una relazione di coppia e, allo stesso tempo, dichiarando la volontà di liberarsi con coraggio dagli stereotipi dell’immaginario r&b, a tutto a vantaggio delle contaminazioni che scaturiscono da un’indole artistica multiforme.

Sorry I Haven’t Called è il disco perfetto se ve la sentite di fare un passo indietro rispetto agli eccessi di certa musica black che c’è in giro, se amate la sobrietà e le vie di mezzo, se non siete a vostro agio con l’estetica e le tematiche del pop contemporaneo, se ne avete le orecchie piene dei cosplayer della trasgressione, dei toni forti, della sessualizzazione spinta, dei vestiti striminziti e dei versi più che espliciti. Dal primo all’ultimo brano, in una tracklist popolata per metà da potenziali singoli, il nuovo album di Vagabon è un efficace percorso di riabilitazione verso il buon gusto.

montascale per il paradiso

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C’è solo una rockstar la cui vecchiaia mi è insopportabile ed è Robert Plant. Non chiedetemi il perché, non sono nemmeno un fan accanito dei Led Zeppelin anche se mi sono sentito in dovere di possedere l’intera discografia in vinile, malgrado i miei gusti siano decisamente meno hard rock. Eppure per i Led Zeppelin nutro una smodata venerazione – insieme ad altri svariati miliardi di persone – che si è sviluppata solo di recente. Negli anni ottanta poche cose erano fuori contesto come la loro musica, poi il grunge ha riappacificato gli animi dei rockettari e dei punkettoni e alla fine ho dovuto ammettere che alcuni dei loro dischi sono davvero eccezionali. Per farvi capire, mi fa più tenerezza Robert Plant da anziano che Robert Smith, per lo meno il primo si concia meno da uno che non ha ancora risolto i problemi con la propria adolescenza, anche se il secondo resta al vertice di ogni mia classifica delle personalità del mondo mondiale. Lo avrete visto tutti con i lucciconi, qualche anno fa ai Kennedy Center Honors, bearsi estasiato per l’ennesima volta dell’eccezionalità della sua vita e della sua musica, e avrete letto della sua performance di beneficenza in occasione del “An evening with Andy and special guest”, la serata organizzata da Andy Taylor dei Duran Duran in collaborazione con il Cancer Awareness Trust dello scorso 21 ottobre. Chi l’avrebbe mai detto che, un giorno, si sarebbero trovati due artisti dalla carriera così lontana a suonare insieme “Stairway To Heaven” che, musicalmente, si trova agli antipodi del New Romantic. Il cantante dei Led Zeppelin ha 75 anni, ovviamente agli acuti dell’ultima strofa non ci arriva più, ma rimane l’insuperabile concentrato di storia della musica che conosciamo.

The National – Laugh Track

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Il resto delle pagine di Frankenstein non delude le aspettative suscitate dalla pubblicazione delle prime due, solo qualche mese fa. I The National sono autori di trame senza tempo e si confermano i veri grandi classici della musica contemporanea. Ci sarà ancora un capitolo della storia?

Altro che Laugh Track. Non c’è niente da ridere. A certi appuntamenti bisogna arrivarci pronti, per questo io abolirei i dischi a sorpresa. La liturgia di un nuovo album dev’essere rispettata religiosamente. Ci vogliono uno o un paio di singoli con qualche mese di anticipo, i video e le campagne sui social per scaldare i fan. Ci vuole il tempo per prenotare il vinile in anteprima, magari l’edizione limitata, colorata e autografata, o anche banalmente il conto alla rovescia per la sua pubblicazione sulle piattaforme di musica liquida. Senza pensare a cosa abbiamo bisogno noi addetti ai lavori, a partire dalla possibilità di ascoltarlo settimane prima degli altri per preparare una recensione da far uscire a ventiquattr’ore dal lancio ufficiale, manco se il pubblico non aspettasse altro di sapere, noi signori nessuno, cosa ne pensiamo di questo o quell’artista.

E, in questo passaggio di autoreferenzialità passivo-aggressiva, ne approfitto per citare me stesso, quando scrivevo che First Two Pages of Frankenstein fosse il disco migliore dei The National, almeno fino a quello successivo. Perché un secondo album a pochi mesi di distanza da quello precedente non può che costituirne la sublimazione. E la copertina non lascia dubbi: Laugh Track è la versione a colori di First Two Pages of Frankenstein.

D’altronde, se ci pensate bene, era indubbio che in quattro anni ci fosse stato tutto il tempo per mettere insieme qualcosa di più della manciata di (ottime) tracce del primo dei due dischi del ritorno dei The National sulle scene. Non solo: se tutto fosse stato concentrato nella stessa pubblicazione, cioè se First Two Pages of Frankenstein e Laugh Track fossero stati confezionati in un unico album triplo o quadruplo, sarebbe sembrato inutilmente prolisso e ci avrebbe preso più per sfinimento che per amore dei The National, con il rischio di non riservare l’adeguata attenzione a certe perle che, fiaccati dalla sovraesposizione, avremmo ascoltato con un po’ di sufficienza snob.

I detrattori della più importante band di questo primo quarto di secolo, a fronte di quasi trenta brani costruiti più o meno con la stessa formula (due o quattro battute con il giro di accordi della strofa e poi spazio alla consueta melodia baritonale di Matt) avrebbero sicuramente trovato nuovi proseliti. In quello che, condizionati da abominevoli pregiudizi, alcuni avranno già scaricato illegalmente (la versione fisica esce a novembre) e archiviato nella categoria degli album complementari ad altre cose trite e ritrite, ci sono invece numerosi spunti che conferiscono a Laugh Track lo status di disco a sé (e decisamente superlativo). Questo indipendentemente dal fatto che, al netto del bimbo che gioca a una specie di “indovina chi sono” con la testa di un manichino, un ascolto superficiale potrebbe far supporre che, in comune tra i due dischi, ci sia poco più che l’anno di rilascio.

Se le trame delle tracce di Laugh Track sono palesemente contemporanee alla preparazione del capitolo che l’ha preceduto (credo che i temi ricorrenti dei testi ne costituiscano una prova piuttosto inconfutabile), il consolidamento, la successiva forma definitiva e (presumo) la conseguente registrazione è avvenuta durante il tour di First Two Pages of Frankenstein. Troviamo quindi una maggior coralità nelle soluzioni di arrangiamento, meno escamotage da studio e più passione live (su tutte, la traccia finale “Smoke Detector”, un brano pressoché infinito in cui l’approccio da estasi da palcoscenico risulta fin troppo evidente). Le parti ritmiche, a partire dal modo di accompagnare con la batteria le canzoni che è proprio di Bryan Devendorf, tornano a conferire ai pezzi quella naturalezza e quella fluidità a cui siamo abituati. Uno stile qui più umanizzato e meno da preset di drum machine che si adatta perfettamente alle esigenze delle canzoni.

Il punto è che i The National hanno quel qualcosa per cui li metti sul piatto e non ci pensi più. Ogni tanto ci destiamo dal rapimento a cui ci induce la loro musica e ci chiediamo se non abbiamo già sentito quella soluzione armonica, quell’arpeggio, quel ritornello o quei versi in rima in un’altra canzone dello stesso disco o in uno degli altri duemila che hanno dato alle stampe nei decenni scorsi. Io sono convinto che non si tratti di stanchezza compositiva. Non è colpa loro. Semmai è frutto di un deja-vu o di una di quelle asimmetrie percettive per cui i nostri emisferi cerebrali colgono una sensazione un millesimo di secondo uno prima dell’altro, ve la vendo così, non so nemmeno se sia scientificamente attendibile ma tanto non ne capite un tubo tanto quanto me e poi, nell’era delle fake news, chi ci fa più caso.

E se non vi ho ancora convinto del voto altissimo che merita Laugh Track, senza dubbio tanto quanto quello che ho assegnato a quell’altro perché, appunto, i due dischi alla fine sono reciprocamente propedeutici (potrei dire lo stesso anche rispetto a tutti gli altri dischi e, ci metto la mano sul fuoco, per tutti quelli che verranno in futuro), un dieci dato al decimo ellepi dei The National comporta almeno lo sforzo di stilare una lista di dieci buoni motivi per giustificare il giudizio stellare.

Il primo (1) è la presenza di “Weird Goodbyes”, il brano scritto a quattro mani con l’amico Justin Vernon alias Bon Iver, uscito lo scorso anno e che ci chiedevamo tutti che fine avesse fatto, dopo esser stato estromesso da First Two Pages of Frankenstein. Il secondo (2) è “Space Invader”, il mio brano preferito, un pezzo metà canzone dei The National e nei restanti tre minuti farneticazione rock ad alto tasso di psichedelia, un nuovo pretesto per Matt Berninger per gettarsi tra la folla di padri tristi ai concerti, con il microfono con il cavo più lungo del mondo, a far impazzire fonici, addetti alla sicurezza e backliner.

Aggiungo quindi il ritorno dei giochini con i tempi dispari (3), mai ci fu un incipit di album altrettanto imballabile di “Alphabet City”, sotto questo punto di vista. E poi ancora (4) la full immersion nell’atmosfera così The National che più The National non si può, e mi riferisco a “Turn Off The House”. Il ritorno (5) dell’inconfondibile timbro di Phoebe Bridgers nella title track, che non fa per nulla rimpiangere l’assenza, a questo giro, di Taylor Swift. E, a proposito di guest femminili, ecco l’esordio di Rosanne Cash (6) come controcanto di Matt in “Crumble”, non a caso la traccia più alternative country del disco. Poi la presenza (7) da una parte di quei brani delicati che solo i The National sanno fare, come “Dreaming”, “Tour Manager” e “Hornets”, dall’altra (8) di “Coat On A Hook”, una road-song che sembra senza fine, da ascoltare nei coast to coast con i finestrini giù.

Infine (9) c’è la compattezza e l’organicità di questo album, forse paradossalmente uno di quelli con maggior identità da cima a fondo della band, un’impressione esemplificata perfettamente dalle vibrazioni che ci dà un brano come “Deep End” e che ci porta inevitabilmente alla decima (10) delle reason-why. Malgrado la mezza età, il tempo passato a calcare i palcoscenici, l’inesauribile vena creativa, la volontà di restare sempre i The National e il non bisogno di cercare altro, la band dei doppi fratelli più un crooner un po’ depresso è tutt’altro che invecchiata e superata. A giudicare da come è andata la scorsa volta, se entro dicembre uscirà un terzo disco sarà un successo senza precedenti, ve lo assicuro.

i cinquant’anni di Selling England By The Pound

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La prima volta in cui ho ascoltato Selling England By The Pound dei Genesis, l’album che in questi giorni compie mezzo secolo, era la primavera dell’83. Lo so perché ricordo perfettamente quel momento. Facevo la seconda liceo e stavamo andando in gita. Ero seduto sul pullman dietro ad Alessandra, una compagna di classe per cui nutrivo una profondissima devozione che mi spingeva a starle sempre nei pressi, un impulso interrotto poche settimane più tardi, quando si presentò a scuola con una permanente che non le donava per niente. Ma in quell’uscita didattica portava ancora i capelli lunghi e lisci. Fu lei a prestarmi il suo walkman Sony con la cassetta che stava ascoltando dentro senza che nemmeno glielo chiedessi, un gadget da famiglia benestante di cui, come quasi il resto dei compagni, viaggiavo sprovvisto. Indossai con la massima cautela le cuffie, la cui spugna protettiva grigia era intrisa del profumo da teenager che usava lei – poteva essere qualcosa tipicamente anni ottanta come Baruffa o, agli antipodi socioculturali, un retaggio degli anni settanta come il Patchouli. Premetti il pulsante play e una voce nuda, su una melodia priva di un sottofondo musicale, così diversa rispetto al modo in cui la conoscevo io e che era il timbro di “Shock The Monkey” o di “Games Without Frontiers”, mi chiese a bruciapelo se sapessi dirgli dove fosse il suo paese. Poi la canzone continuò, e dopo la sorpresa di quell’attacco mi rilassai, abbandonandomi nell’ascolto sul sedile del pullman. Ecco, se potessi scegliere un superpotere, vorrei poter riascoltare per la prima volta certi dischi, a partire da Selling England By The Pound, e bearmi dell’effetto che fa.

Ma torniamo alla gita. Spostai lo sguardo fuori dal finestrino, intorno a me scorreva una natura approssimativa ma non saprei dire dove stessimo transitando, né rammento quale fosse la meta di quel viaggio. Intercettando alcuni tratti del mio viso riflessi nel vetro, forse in quell’istante maturai gli effetti dell’amore impossibile a cui anelavo e la certezza che quel disco, i cui dettagli scoprii solo in seguito, mi avrebbe accompagnato per il resto della vita anche se, di lì a poco, i miei gusti musicali si sarebbero radicalmente allontanati da quelle sonorità. Qualche mese dopo uscì Construction Time Again dei Depeche Mode, rimasi folgorato e, da allora, anche se i Genesis (con Peter Gabriel) sarebbero rimasti per sempre al vertice della lista delle sensazioni più belle mai provate, la mia estetica musicale non tornò mai più indietro.

Il fatto è che la percezione del tempo che scorre è inversamente proporzionale a quanta vita abbiamo già vissuto, su questo non ci piove. Uno dei pensieri che mi dà così tanta ebbrezza da farmi perdere l’equilibrio – una cosa banale, eh, niente di che, abbassate pure le vostre aspettative – è che l’anno in cui sono nato dista dalla fine della seconda guerra mondiale lo stesso tempo che intercorre dal momento in cui sto scrivendo questa cosa che leggete a quello in cui i Massive Attack pubblicarono Mezzanine, un disco che, per come suona e per la frequenza con cui se ne sente parlare quotidianamente da chiunque, potrebbe essere uscito ieri.

Quei dieci anni – dal 73, anno di uscita di Selling England By The Pound, all’83, la gita con il walkman di Alessandra e la sua cassetta dei Genesis, corrispondono allo stesso arco temporale che intercorre tra l’oggi e, per fare un titolo a caso del 2013, Trouble Will Find Me dei The National, un disco di musica attualissima. Tutta colpa dell’eterno presente che va avanti dall’inizio del duemila e che ha ridotto quasi un quarto di secolo a poche indistinguibili stagioni.

Invece, in quei dieci anni che separavano il mio primo ascolto di Selling England By The Pound dalla sua pubblicazione, era trascorsa un’era geologica. Gli anni ottanta, con uno spoils system culturale mai visto prima, avevano mandato in pensione i capelli lunghi, l’organo hammond, le zampe di elefante, le suite rock con i brani lunghi un’intera facciata e le radio libere, mettendo in pratica un processo di semplificazione culturale a beneficio del pop. Ritmi pari, sintetizzatori, radio edit, poca tecnica e network commerciali con ballerine in costumi striminziti.

Non so dirvi quando acquistai la copia che possiedo tutt’ora di Selling England By The Pound, ma mi piace pensare che, a ridosso della mia svolta dark new wave, il mio me stesso di allora abbia investito la sua paghetta mensile in un disco che sono sicuro di conoscere meglio di qualunque altra cosa al mondo. Posso anticipare qualunque passaggio della sua tracklist, dall’incipit di Dancing with the Moonlit Knight al fade out di Aisle of Plenty. Sapevo addirittura accennare al piano l’intro di Firth of Fifth.

Non vi sto a fare la storia e l’analisi brano per brano di uno dei più importanti prodotti della creatività del genere umano che, come credo, conoscerete tutti a menadito e sono sicuro che sapreste descrivere meglio di me. Vi dico solo che spero che qualcuno mi avvisi quando sto per morire almeno 5 minuti e 19 secondi prima, giusto il tempo per ascoltare, per l’ultima volta, il finale strumentale di The Cinema Show e portarlo con me nell’eternità, o qualsiasi cosa ci sia.

Deeper – Careful!

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È sufficiente un qualsiasi Bignami della musica degli anni ottanta a confermare quanto i compromessi di certi gruppi post-punk di allora, al terzo o quarto disco, abbiano permesso un’appendice insperata alla loro fortuna. Gli incesti con reggae, pop, funk, industrial e persino l’italo-disco oltre il tempo limite ne hanno abilitato la sopravvivenza (o per lo meno un dignitoso strascico) al di fuori dei paradigmi claustrofobici tipici di un genere diventato temporaneamente fuori moda. Non dobbiamo sorprenderci, quindi, delle recenti virate delle band omologhe del nuovo millennio verso altri stili. Negli ultimi mesi abbiamo incensato credibili omaggi degli Squid e compagnia bella al math-prog, al punk più sbraitato e persino alle derive cantautorali.

Giunti al terzo album, i Deeper invece ottengono il badge di fedelissimi alla linea e lo fanno in un modo tutto sommato convincente. D’altronde non c’è scritto da nessuna parte che sia necessario creare brecce nella propria comfort zone per raggiungere una illusoria scomodità solo per la fama o perché ci si sente stufi di fare sempre la stessa cosa, e ve lo dice uno che è stato azzurro di routinaggio estremo.

La sicurezza di ciò che si conosce bene probabilmente si è profilata come la via più percorribile per l’autoconservazione. La band di Chicago aveva infatti attraversato una crisi esistenziale nel corso della lavorazione del secondo album Auto-Pain, uscito nel 2020. Il chitarrista Mike Clawson aveva tristemente rinunciato prima al suo ruolo nel gruppo e, pochi mesi dopo, ancora più tristemente, alla sua vita. Sappiamo cosa succede, nel mondo della musica, quando un membro di una band si suicida, e a volte possiamo dedurre anche il perché. A questo aggiungeteci la fase storica, in quei mesi di lockdown e post-pandemia, aggravanti che hanno messo a dura prova la creatività in ogni settore artistico a fronte dei punti interrogativi del futuro.

Questo per dire che, sostanzialmente, il terzo disco dei Deeper è un ottimo terzo disco dei Deeper, freschi di approdo alla scuderia Sub Pop. Nic Gohl, il cantante e chitarrista, si conferma una delle voci migliori della nuova generazione post-punk, uno che non si lascia andare volentieri alla tentazione dello spoken-word e, quando lo sentiamo slegare le sue melodie dai solchi dell’intonazione, non lo fa solo per aggiungere una nota di trasgressione gratuita all’approccio della band. Insomma, siamo sempre dalle parti dei Wire ma in una variante che soddisfa anche i palati più tecnici. Il resto della band (Drew McBride alla chitarra, Shiraz Bhatti alla batteria e Kevin Fairbairn al basso) marciano come treni ad alta velocità e con adeguato rigore nei loro binari. Ad aggiungere valore, qualche trovata di sintetizzatori e tappeti di strings qua e là, in grado di ribadire l’auspicata algidità alle canzoni.

I brani di Careful! sono un vero compendio delle trovate compositive del genere. Riff ricavati da spigolose rincorse monodiche tra chitarre pulite che non si sottraggono al gioco di fare il verso alla linea vocale. Cassa e basso in ottavi coordinati. Dinamiche con su e giù e stop and go a dare i giusti sussulti anti-noia. Sobrietà esecutiva e ampia varietà sotto-stilistica (vi sorprenderà scoprire quante combinazioni si possono ottenere nella zona di confine tra il post-punk e la new wave più accondiscendente).

In linea con i due lavori precedenti, i Deeper si confermano il più british dei gruppi post-punk americani, e se ascoltate brani come “Bild”, “Glare” e “Build A Bridge” avrete capito che cosa intendo. Un sottoinsieme da cui si discostano lievemente “Dualbass”, tutta colpa di qualche inciampo nel blues, e “Sub”, con quel crescendo di rabbia nel finale che ci lascia di stucco, d’altronde è raro vedere i Deeper scomporsi.

Ci sono anche episodi più sperimentali riconducibili alla drum machine di “Tele”, ai richiami ai New Order (complice l’elementare riff di chitarra che si svela nel finale e che ci riporta a “Age of Consent”) e a certi guizzi alla Devo di “Fame”, il brano in cui più di tutti Gohl vena il suo timbro degli armonici vocali di Robert Smith. “Everynight” probabilmente è la canzone più riuscita di tutta la tracklist, un pezzo in cui le tastiere si impadroniscono della scena lasciando libere le chitarre di perdere il controllo.

L’album si conclude con la canonica traccia tutta su tre note, una tentazione a cui nessuna band post-punk che si rispetti difficilmente sa resistere. Ma “Pressure” non è solo questo. Nascoste dalla linearità espressiva ci sono le parole d’amore nei versi dedicati da Nic Gohl alla moglie. Il che suona strano nel post-punk di maniera dei Deeper, rigoroso e a tratti persino filologico. L’angoscia che pervade il disco non cambia di una virgola, alla fine dell’ascolto, ma si percepisce una evidente apertura della band al mondo che li circonda, come se avessero imparato la lezione, dopo quello che gli è successo. Una sorta di maturità artistica, per capirci. Malgrado le ferree regole del club musicale a cui appartengono, i Deeper di Careful! ci tendono una mano, si avvicinano per sussurrare qualcosa di bello che non saprebbero dire altrimenti. E, fidatevi, per riuscirci con il post-punk ci vuole davvero della stoffa.