matinée

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amore vigliacco

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È impossibile ipotizzare una stima precisa, ma partendo dagli anni ’60 a oggi avere un gruppo rock – genere inteso in senso lato, avrei fatto meglio a scrivere avere una band – e farne una professione è stato un sogno per centinaia di migliaia di ragazzi, giusto per rimanere in Italia. Il problema, se lo vogliamo intendere come tale, è sintetizzato nella celebre massima “uno su mille ce la fa”, e il fatto che a cantarla sia stato Gianni Morandi potrebbe già dare a questo incipit la dignità di aver centrato le cause di una moria di talenti senza precedenti e più o meno a ragione. Può risultare interessante scoprire che ne è stato degli altri novecentonovantanove.

Se volete farvi un’idea di quello che rimane sotto al fortunato che emerge, o nella batteria immediatamente più bassa, a filo con l’acqua – se vogliamo utilizzare la metafora dell’iceberg – e che passa una parte della sua vita in odore di vittoria e che solo una botta di fortuna, in quella posizione, potrebbe farlo emergere. Oppure quelli affogati sul fondo, schiacciati da tutta la massa di aspiranti che li sovrastano senza lasciare lo spazio per tutta una serie di meriti, giustamente. Chi è più bravo, chi è più paraculo, chi ha i contatti giusti, chi ha dei numeri. Ma a qualsiasi livello di questa indagine stratigrafica c’è una qualità trasversale che in taluni casi costituisce l’elemento decisivo, in altri, pur essendo presente in dosi anche elevate, non riesce a fare la differenza. Si tratta dell’impegno, della costanza e della disponibilità al sacrificio di chi ci vuole davvero provare. Un investimento a fondo perduto, nella stragrande maggioranza dei casi.

Si sa, nello spettacolo in genere c’è un elemento, che è il gusto del pubblico – inteso anche come i quattro ubriachi unici ad ascoltarti nel pub di periferia mentre suoni – che ne ingigantisce l’imprevedibilità. No, purtroppo non è un lavoro come gli altri, che già hanno la loro precarietà. Questa è una peculiarità della categoria “saranno famosi”.

Ma chi sono tutti gli altri, i sommersi, quelli che ci provano e non ci riescono? Che fine fanno? Che ne è stato del loro lavoro, delle composizioni, delle demo? Che cosa non ha funzionato, malgrado l’abnegazione? Quando si capisce che arrivato il momento in cui non si può fare altro che mollare il colpo?

S. è stata per quindici anni la cantante dei C., un gruppo ormai sciolto che ha seguito l’iter standard di chi opera in ambito musicale ai tempi del web. Le origini, la fase di costruzione di un’identità, le prime composizioni. Poi la ricerca di locali per concerti, le manifestazioni, la partecipazione a concorsi. Si registrano le demo, gli studi di registrazione pagati da mamma e papà, i cd autoprodotti. Quindi la musica condivisa su tutti gli spazi social più comuni, verticali e non, si diffonde la propria arte, si cercano contatti. Nel frattempo si cresce, e nel momento in cui si deve scegliere che fare della propria vita si sceglie un lavoro sufficientemente flessibile da non ostacolare l’attività musicale. Bisogna essere sempre pronti a partire per suonare magari a 400 chilometri di distanza, quindi si prediligono gli impieghi su turni. Fino a quando ci si rende conto che è tutto vano e si ripiega su una attività più amatoriale, ci si dà lo status di gruppo di nicchia, lo si era anche prima ma si anelava al grande successo. Nel frattempo non è più tempo per una carriera altrove, non è più tempo per una famiglia, magari. E il rock non ha ripagato. Casi di questo tipo sono numerosissimi quanto le varianti. C’è chi non demorde, magari sfrutta un equilibrio con il proprio lavoro vero, e continua imperterrito anche mentre i coetanei spingono le carrozzine dei nipotini al parco.

E c’è infine quel mausoleo che è Internet, un luogo infinito che risuona in ogni dove di band ormai morte e sepolte. Siti o pagine dei social network più diffusi tra gli emergenti che proclamano l’ultimo aggiornamento avvenuto quattro o cinque anni fa. Tonnellate di canzoni caricate su server in ogni dove di cui non se ne farà più nulla, un cimitero della creatività dall’atmosfera spettrale indipendentemente dal genere di appartenenza dei reperti in cui ci si imbatte. Provateci, fate un giro a caso su Myspace, prima che sparisca come la maggior parte dei suoi utenti.

E non credo che nel caso dei ragazzi che non ce l’hanno fatta sia stata una congiura del mondo verso il gruppo in questione. Magari erano proprio scarsi. Non è nemmeno il caso di drammatizzare, forse non è così importante. Ma, ribadisco, può essere comunque un’esperienza edificante sfogliare tutte quelle pagine autocelebrative, immaginando di attraversare i corridoi di quegli immensi stabili adibiti a sale prove, con tutte le porte che si affacciano allineate e dai cui pannelli isolanti si percepiscono i rumori di sogni che si infrangono, sogni di ogni genere (musicale), con distorsore o senza.

p.s. il titolo del post riprende quello di una canzone di gruppo di tantissimi anni fa, una band che si è sciolta quando non solo non c’era ancora Internet, ma non esistevano nemmeno i cd, in cui si parlava proprio di questo. L’amore vigliacco, inutile dirlo, era la musica. Anzi, il rock’n’roll.

l’ora del tè

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love is the drug, anzi il viagra

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La notizia è che Brian Ferry ha sposato una ex di suo figlio con un gap anagrafico in suo favore di 35 anni, che suona strano come prendere un pezzo dei Roxy Music vecchio come il cucco e dargli nuova linfa facendone un remix. Toh, guarda che coincidenza. Via.

gioia e rivoluzione

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Tornando alla lamentatio con cui Gino Castaldo ratificava l’assenza di un qualsiasi artista, gruppo o interprete che fosse in grado di incarnare tutto quanto sta dietro ai movimenti di protesta newyorkesi riconducibili a Occupy Wall Street, ecco la risposta – pura coincidenza, chiaro – proveniente da quelle party, e non si tratta di un refuso. New Party Systems è il supergruppo che propone un inno, dal mio punto di vista più che autorevole, per sonorizzare la situazione. E indovinate un po’ a chi appartiene la vocina solista dell’ambizioso progetto. Vi lascio un indizio con soluzione compresa: suona la chitarra e supporta vocalmente il cantante Tunde Adebimpe in una delle mie band preferite, i Tv on the Radio.

amici di penna

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Che poi uno scrive in un posto così per i motivi più strani ma comunque quasi tutti riconducibili al fatto che è libero di scrivere quello che gli pare nella forma che preferisce. Oddio libero è una parola un po’ grossa, occorre anche tener conto del piacere di essere compreso e condiviso. Vi risparmio comunque quello che si dice ormai da più di dieci anni sui diari on line, sulla psicologia dei blogger e dei suoi lettori casuali, distratti, assidui o che altro, perché lo sapete già. Ma un giorno uno si accorge che qualcosa è cambiato solo perché riceve una e-mail in cui un lettore gli chiede di scrivere un post su questo o quell’argomento. Il che non può non far piacere, ma, caro mio, non vorrei che tu mi avessi sopravvalutato. Lasciamo le inchieste ai giornalisti professionisti. Qui, dove non c’è alcuna cassa e vige il dis-ordine, ci limitiamo a dare qualche parere, ogni tanto ci esponiamo, ma ben lungi dal fare informazione. Al massimo ti posso aggiornare sul fatto che a febbraio è prevista l’uscita del nuovo dei Cursive, la band guidata dal versatile quanto barbuto Tim Kasher che con il precedente “Mama, i’m swollen” del 2009 ha fatto più di una semplice breccia nei miei ascolti. E tu mi dici che vabbè, anche questa è informazione, no? Prima non lo sapevo, ora ho letto qui e lo so. D’accordo, però non mi sono inventato nulla, io a mia volta l’ho letto qui e me lo sono segnato, se la metti da questo punto di vista posso anche darti ragione. Anzi, per conferire un ulteriore valore aggiunto alla notizia, e magari non conosci i Cursive, eccoti un paio dei loro brani migliori. Grazie comunque per l’attenzione che mi hai dedicato.

master (e basta)

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C’è un’altra fondamentale (sempre nel grande calderone del wtf, o più elegantemente pour parler) suddivisione in due categorie di musicisti, ovvero chi sa stare sul palco e chi no, una capacità che in genere è valutata solo nei confronti dei cantanti ma che spesso si estende per forza di cose a tutti i componenti di un gruppo. Perché chi si muove in armonia con la musica che esegue conferisce valore aggiunto allo spettacolo e perché c’è chi anche solo a stare fermo immobile con una mano sul microfono e l’altra sull’asta fa venire la pelle d’oca dal carisma che eroga a litri sul pubblico. Diciamo che chi ha accesso al cosiddetto star system solitamente rientra nel sotto-genere degli animali da palcoscenico, la selezione naturale che li ha condotti fino lì non ha tenuto solo conto delle doti canore. E non si parla solo di bellezza, prestanza fisica, atleticità, ma quell’elemento invisibile separatamente da un corpo umano che lo rende speciale e che può essere composto da qualunque cosa. La postura, un cappello, il modo di ballare, l’interazione con gli altri musicisti, il sex appeal, insomma l’elenco è infinito. Tutto questo perché, discutendo su frontman davvero passati alla storia per la loro presenza scenica, è scaturita l’immancabile competizione tra chi sosteneva il proprio candidato più degno di conquistare una posizione al vertice considerando una serie di fattori: maturazione di personalità artistica dagli esordi all’età adulta se non oltre, qualità vocali, coolness, ascendente erotico, abilità nelle movenze, longevità di successo e, per limitare il campo, lontananza dagli stereotipi del rock’n’roll, per dire non uno alla Jim Morrison, entrato nel mito. Non me ne vogliate, ma ha vinto Dave Gahan, in questa versione comprensiva di piroette, anche se io lo preferivo in quella subito sotto.


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punk’s not dead

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Poco dopo aver letto l’epitaffio di Gino Castaldo su Repubblica in cui, a suo modo, proclama la morte del rock mi è capitato questo lugubre tumblr dall’azzeccatissimo nome “Live”, in cui si applica l’effetto trasparenza 0% ai membri dei gruppi rock passati a miglior vita sulle copertine di alcuni album piuttosto celebri. Ma si sa, la rete è “la morte sua” delle coincidenze. Quella qui sotto, per esempio, mi ha messo di cattivo umore.

fenomenologia del giro armonico

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Ascoltando per la milionesima volta Enola Gay degli OMD, ma secondo me se avete un buon orecchio anche prima, vi sarete accorti che la arcinota pietra miliare del synth-pop dei primissimi eigthies è tutta stramaledettamente uguale, dall’inizio alla fine. Sarà questo il suo punto di forza? Un continuum di strofe o di ritornelli, a vostro piacimento, dall’inizio alla fine, alternato solo al cantabilissimo riff di sintetizzatore ma dalla sequenza armonica invariata e a un break che comunque lascia presumere la completa aderenza al resto dei pattern che interrompe, cosa che si deduce dalle ultime due battute in cui ricompaiono gli accordi in crescendo. Perché di un giro armonico si tratta, il classicissimo I, relativo minore, IV (relativo maggiore a sostituzione del II minore) e V risolutore anche senza la settima. La storia del pop è piena di composizioni scritte ed eseguite secondo tale successione, è facile dilettarsi con mash up mentali o cantati di Enola Gay con qualsiasi altra canzone con analoghi intervalli,  “Let’s twist again” è la prima che mi viene in mente. Tutto questo perché il giro in questione fa parte dei primi rudimenti per un approccio attivo a un qualsiasi strumento d’accompagnamento armonico, piano o chitarra per esempio. Corrisponde all’ABC per gli strumentisti, che con quattro accordi, se sono dotati di una voce accettabile, posso lanciarsi nell’esecuzione di una miriade di brani, italiani e non. E solo un siffatto mantra di sigle può non annoiare l’ascoltatore e placare la smania da risoluzione in ritornello; la ripetizione del giro riduce l’ansia da apertura trionfale verso il climax melodico perché si rincorre ad libitum, sufficiente a sé stessa in un andamento ricorsivo che trasmette la sicurezza di ripartire, ogni volta, dallo stesso punto senza rischio di smarrimento del riferimento tonale. Un fenomeno curioso sicuramente generato dall’abitudine all’ascolto, tanto che le orecchie vergini come quelle dei più piccoli sono le uniche che sono in grado di reagire al moto perpetuo del giro, sbuffando e reagendo come solo loro sanno fare, applicando la stessa insofferenza a mantenere la stessa posizione con il corpo per più di pochi secondi. Che, su un riproduttore audio, si traduce in “papà, ma ‘sto pezzo è tutto uguale, metti quello dopo”. Che, per mia fortuna, è Electricity.

come gliele suonava, a quelli di sinistra

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9 gennaio 1972: Pollini suona nella fabbrica poligrafica occupata di Genova. «Volevo una buona acustica, si decise di ricoprire le macchine di cartoni. L’occupazione coinvolse l’intera città. Parlai con gli operai, mangiai con loro il cibo che portavano i genovesi». 3 marzo 1970: Pollini suona al Conservatorio di Milano, in Vietnam gli americani hanno appena bombardato Hanoi. Pollini prova a leggere una dichiarazione. «Ma dopo cinque secondi, la parola Vietnam suscita un boato spontaneo. Non avevo la pretesa di fare propaganda politica. Era una semplice protesta contro un efferato episodio di guerra. Rimasi di sasso per la violenza e la precisione della reazione. Nella mia ingenuità, pensavo che avrei potuto suonare egualmente».

Da un’intervista a Maurizio Pollini sul Corriere di qualche tempo fa. Buon compleanno, maestro.